Oltre Milano, la politica deve trovare il coraggio di cambiare. Scrive Bonanni
- Postato il 7 agosto 2025
- Politica
- Di Formiche
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Finito il clamore mediatico, silenzio. Nessuno ha annunciato di voler rivedere le leggi urbanistiche. Nessuno ha aperto un’inchiesta per capire se quanto accaduto a Milano non sia che la punta di un iceberg che affiora ovunque, dalla pianura padana alle isole. Un segnale inquietante, ancor più grave del fatto in sé: senza dibattiti veri, senza volontà di riforma, le distorsioni resteranno intatte, pronte a replicarsi.
A Milano ci si è soffermati sugli effetti: arresti, abusi, opacità. Ma le cause? Si finge di non vederle. Da anni la politica ha scelto di rinunciare alla partecipazione dei cittadini, giudicata troppo lenta e scomoda. Ha preferito trasferire poteri decisivi ai tecnici, illudendosi che la competenza basti a garantire trasparenza. Così la politica partecipata è uscita dalla porta per rientrare dalla finestra: opaca, furtiva, incontrollata.
Negli ultimi anni i consigli comunali sono stati marginalizzati. Le varianti urbanistiche e gli strumenti attuativi sono spesso nelle mani di funzionari nominati dai sindaci con il placet delle giunte. Di fatto, l’urbanistica è diventata un’arena riservata a pochi, dove le trattative avvengono tra uffici tecnici e operatori privati. Meno dibattito pubblico, meno controllo democratico, più spazi per scelte opache.
Come se non bastasse, il legislatore nazionale ha gonfiato il sistema con norme “eccezionali”: condoni, decreti salva-qualsiasi-cosa, deroghe per interventi strategici o di rigenerazione urbana. Senza parlare dello scellerato titolo quinto che ha prodotto tante leggi sull’urbanistica quante sono le Regioni. Un labirinto di provvedimenti emergenziali che ha svuotato i piani regolatori, scavalcando le regole ordinarie e confondendo il rapporto tra pianificazione e gestione. Risultato? Migliaia di costruzioni sigillate dalle procure a valle di processi edilizi che, a monte, nessuno ha davvero vigilato. Eppure a nessuno è venuto in mente una “legge quadro”che rimettesse ordine.
Ma il dramma più grande è l’assenza di reazione. Nessun partito ha proposto di riaprire il confronto, nessun governo ha promesso riforme. Politica ridotta a scaricabarile: “Colpa loro, non nostra”. Ma sono tutti colpevoli: maggioranze e opposizioni, che negli anni hanno alimentato lo stesso sistema.
Eppure l’urbanistica non è materia tecnica da lasciare agli addetti ai lavori. È economia, coesione sociale, qualità della vita. Continuare così significa condannare le città a frantumarsi: ghetti per i poveri, quartieri fortificati per i ricchi, zone filtro per un ceto medio sempre più fragile. Le città dei nostri padri non erano così.
Ora serve l’opposto: restituire centralità ai consigli comunali, riportare le decisioni strategiche dentro un dibattito pubblico vero, ridare ai cittadini il potere di orientare il futuro delle loro città, una legge quadro urbanistica. Non c’è alternativa: o la politica ritrova il coraggio di cambiare, o continueremo a vivere in un Paese dove l’urbanistica resta il terreno preferito di chi sa approfittare delle zone d’ombra.