Oltre 6500 palestinesi costrette a lavorare negli insediamenti israeliani. Salari bassi e nessun contratto – Report

  • Postato il 14 aprile 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Usciamo di casa alle tre del mattino e passiamo da una a due ore ai posti di blocco. A volte ci vogliono anche cinque ore per raggiungere l’insediamento. Qualche volta ci rimandano indietro”. Mariam ha 19 anni, vive in Cisgiordania e lavora in un insediamento israeliano illegale. Come lei, ogni giorno oltre 6.500 donne palestinesi attraversano checkpoint militari, strade isolate e aree recintate per raggiungere luoghi di lavoro che, secondo Oxfam, incarnano una forma di sfruttamento sistemico.

Un rapporto pubblicato a marzo 2025 dalla ong, in collaborazione con il Palestine Economic Policy Research Institute e Mother School Society, descrive un sistema economico fondato su una dipendenza forzata. Le politiche israeliane nei territori occupati – confisca di terre, demolizione di case, controllo delle risorse naturali e restrizioni alla libertà di movimento – hanno progressivamente eroso ogni possibilità di vita e lavoro all’interno delle comunità palestinesi. In questo contesto, molte donne si ritrovano senza alternative.

“Lavorare in un insediamento era terrificante per me, ma non c’erano altre opportunità”, racconta Wafaa, 53 anni. Non si tratta di una scelta, ma di una necessità. La disoccupazione femminile in Cisgiordania ha raggiunto il 35 per cento, mentre il Pil dei territori palestinesi occupati è crollato del 32 per cento in un solo anno. Parallelamente il numero di checkpoint è aumentato del 20 per cento tra ottobre 2023 e febbraio 2024, passando da 567 a 700. Ogni spostamento è soggetto a controlli e rallentamenti. Le lavoratrici raccontano di lunghe attese, respingimenti, perquisizioni e, in alcuni casi, minacce e umiliazioni.

Chi riesce a raggiungere il luogo di lavoro, lavora senza contratto e per salari bassissimi: meno di 100 shekel al giorno, poco più di 25 euro. Il 94 per cento non ha un contratto. Il 93 lavora in condizioni definite “non sicure”: campi agricoli esposti a pesticidi tossici, fabbriche con macchinari privi di protezioni, capannoni sovraffollati e senza aerazione. Più del 70 per cento affronta turni prolungati, spesso su due fasce orarie – mattina presto e sera tardi – per coprire il fabbisogno familiare. In molti casi, il salario di queste donne è l’unica entrata economica: il 60 per cento dichiara di essere la principale, o l’unica, fonte di reddito del nucleo. “Lavoro nell’insediamento da 8 anni. Sono l’unica fonte di sostentamento per la mia famiglia. Finanziariamente, la situazione è difficile e mio marito è disoccupato. Se nessuno lavora, chi si occupa delle spese domestiche?”, racconta Dalal, 43 anni, residente nella Valle del Giordano. Una zona in cui 12.800 coloni israeliani controllano il 95 per cento del territorio, mentre 60mila palestinesi vivono confinati nel 5% restante, spesso senza accesso ad acqua, mercati o mezzi di trasporto. Nei villaggi di Al-Jiftlik e Al-Zubeidat, oltre la metà della forza lavoro femminile è impiegata negli insediamenti.

Oltre alle difficoltà economiche, molte denunciano violazioni sul posto di lavoro: furti salariali, mancato pagamento di indennità promesse e discriminazioni razziali e di genere. Alcune riportano molestie sessuali e, in casi estremi, aggressioni fisiche. Il potere dei coloni è descritto come totale: possono decidere accessi, stipendi, licenziamenti e bloccare permessi. “Vorrei questo tipo di lavoro fuori dalla mia vita”, afferma ancora Mariam. Ma secondo il report, la possibilità di un’alternativa è sempre più remota. Il numero di donne palestinesi impiegate negli insediamenti è quintuplicato: erano meno dello 0,7% nel 2018, sono il 3,4% oggi. Molte di loro lavoravano un tempo per imprese palestinesi — aziende agricole, laboratori artigianali e piccole manifatture — ma queste attività sono state chiuse o rese impraticabili da vincoli burocratici, militari e logistici. Chi resta senza terra, senza strumenti e senza sbocchi viene spinto verso il solo sistema economico ancora accessibile: quello degli insediamenti.

Secondo Oxfam, la dipendenza economica dal sistema degli insediamenti non è accidentale: è l’esito di una strategia strutturata. Le donne palestinesi, infatti, non solo subiscono le conseguenze dell’occupazione, ma sono costrette ad alimentare – senza alternativa – l’economia dei coloni. Eppure, molte di loro esprimono il desiderio di uscire da questa condizione. Vorrebbero coltivare la propria terra, aprire piccole imprese e lavorare nei villaggi d’origine. Ma, come sottolinea Oxfam, servono accesso al credito, infrastrutture, libertà di movimento e stabilità per emanciparle da un sistema che le rende invisibili.

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Il Fatto Quotidiano

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