Norimberga come non l’abbiamo mai vista: la fragilità segreta dei gerarchi nazisti sotto processo

  • Postato il 29 novembre 2025
  • Di Panorama
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Hans Frank, l’avvocato personale di Adolf Hitler, sentiva prurito all’occhio per un orzaiolo che gli era cresciuto sulla palpebra. L’ammiraglio Karl Dönitz doveva curare l’infezione all’orecchio. Ed Hermann Göring, nel letto, non riusciva a trovare una posizione confortevole perché la sciatica lo pungeva sul basso della schiena.

Davanti ai giudici, accusati di crimini di guerra, anche i Mostri del Terzo Reich, fino a qualche tempo prima arroganti dominatori, scoprirono i fastidi e le inquietudini della gente “normale”. Il presidente della Banca centrale tedesca, Hjalmar Schacht, ingannava il tempo sfogliando libri che prendeva da uno scaffale per appoggiarli sul letto e rimetterli poi al loro posto. Julius Sreicher, Gauleiter della Franconia, si sentiva venire meno per una tachicardia che gli toglieva il respiro. Si atteggiava da erudito ma tradiva insicurezza con quel suo guardarsi continuamente le punte delle dita. E il sorriso, fra smorfia e ghigno, gli storceva la bocca e gli rimpiccioliva gli occhi.

Il processo agli uomini della nomenclatura nazista cominciò a Norimberga il 20 novembre 1945 e si concluse l’anno dopo, il 1° ottobre. Fu un dibattimento laborioso che si dipanò per 403 udienze. Quattro giuristi diedero voce alle ragioni dell’accusa e 56 interpreti (a turno) assicurarono le traduzioni simultanee e la verbalizzazione in tedesco, inglese, francese e russo. Ne uscì un resoconto di 42 volumi per ciascuna lingua equivalenti a una tonnellata e mezza di carta.

Fra quel diluvio di parole, spesso appesantite dalla burocrazia giudiziaria, spuntarono gli appunti di Leon Goldensohn che era uno psichiatra, arruolato nell’esercito Usa e assegnato ai reparti della sanità. Ebbe l’incarico di prendere in cura gli imputati nazisti. Di quegli incontri con i suoi terribili pazienti, i resoconti riportati in appunti a mano (prima) ed elaborati (poi) in cartelle dattilografate rappresentano una cronaca medica assai singolare. Dopo la morte dell’autore, il testo rimase in qualche cassetto e, forse, sarebbe andato perduto se Robert Gellately non avesse preparato un’edizione da pubblicare. I taccuini di Norimberga sono riproposti da Neri Pozza (656 pagine, 28 euro) e rappresentano uno spaccato non convenzionale della vita da reclusi degli ex potenti del Reich.

L’ex ministro degli Esteri Joachim Ribbentrop sembrava «depresso». Quello dell’Economia, Walter Funk, era preoccupato per gli effetti della prostata che lo costringevano a troppo frequenti passaggi in toilette. Rudolf Hess (che era stato vicesegretario del partito nazista) appariva in tale «confusione mentale» da non ricordare nemmeno «i dettagli degli episodi più recenti». E Wilhelm Frick, ministro degli Interni del Führer, per via delle guardie che facevano chiasso di notte, aveva necessità di robuste dosi di tranquillanti per prendere sonno.

Gli imputati dovevano essere 24 ma, alla sbarra, si presentarono in 21. Inizialmente, intendevano processare il numero uno degli industriali – Gustav Krupp – per dimostrare l’atteggiamento di collaborazione degli alti papaveri dell’economia a sostegno del nazismo ma la sclerosi mentale era arrivata prima e fu necessario dichiararlo «incapace d’intendere e volere». Invece, Robert Ley (responsabile sindacale del Fronte del Lavoro) s’impiccò in cella prima dell’inizio del dibattimento. E venne dichiarato contumace Martin Bormann (capo della segreteria di Hitler) che, in realtà era già morto. Tentando di scappare dal bunker di Berlino, era stato ferito e, per non cadere prigioniero, ingoiò una capsula di cianuro di idrogeno.

Tre imputati vennero assolti. Per 12, la condanna a morte per impiccagione. Tre rimediarono l’ergastolo e gli altri pene fra i 10 e i 20 anni. Alfred Jodl e Wilhelm Keitel che, in tempi diversi, rivestirono il ruolo di capo di Stato maggiore, chiesero di essere fucilati. Domanda che avanzò anche l’ammiraglio Erich Raeder al quale era stato inflitto l’ergastolo ma che, preferendo morire che marcire in carcere, chiese di essere portato al patibolo. Manco a dirlo: le istanze furono respinte. Ad ammazzarsi, graffiandosi i polsi, ci provò anche Donitz che, in infermeria, si disse contento per non esserci riuscito evitando «quel peccato gravissimo per l’anima» che colpisce i suicidi. Provvide invece a farsi giustizia da solo Göring, che la fece finita ingerendo delle capsule di cianuro.

La scelta di istituire un processo nei confronti della nomenclatura nazista non fu immediata. Quando compresero che la vittoria sulla Germania era questione di tempo, i vertici dei Paesi dell’Alleanza ipotizzarono che si dovevano mandare a morte gli sconfitti, all’atto della cattura. Perché aspettare per fare giustizia? Poi si fece strada l’idea di un processo che avrebbe avuto un’eco mediatica imponente. E, proprio per ottenere un effetto moltiplicatore che accreditasse i vincitori, venne preparato un capo d’imputazione che, al momento, sembrava nel segno di un rigoroso diritto internazionale. Ma, già durante il dibattimento, apparve inutilmente ideologico e non immune da contestazioni. Gli stessi imputati si meravigliarono di essere chiamati a rispondere di «crimini contro la pace». La guerra mondiale scoppiò quando i tedeschi invasero la Polonia che occuparono fino alla linea di demarcazione indicata dai fiumi Narew, Vistola e San. Non andarono oltre perché l’altra metà fu invasa dai sovietici. Poche settimane prima (23 agosto 1939) i rispettivi ministri degli Esteri Joachim Ribbentrop e Mikhailovich Molotov avevano firmato un accordo per spartirsi quei territori.

Com’è possibile che all’uno toccasse difendersi in giudizio mentre l’altro rivestisse il ruolo dell’accusatore?

«Infatti» parola di Göring «posso sopportare di rimanere in questo processo solo perché sono dotato di un discreto senso dell’umorismo». Che, a suo giudizio, non mancava nemmeno a Hitler. «Faceva qualche battuta», raccontò a Goldensohn che lo visitava, «non era di una simpatia travolgente ma, a modo suo, non difettava di arguzia. Raccontava delle storielle anche se, alla fine, si ripeteva e tornava su quelle che avevamo già sentito dozzine di volte. Rideva poco ma per il resto era un genio».

Un po’ tutti gli imputati giustificarono la nascita del nazismo come la reazione di una popolazione strangolata dalla miseria e dai debiti. Famiglie decapitate dalla guerra in trincea che consumò la vita di padri, mariti e figli. E i sopravvissuti costretti a mendicare un briciolo di lavoro e a rovistare nei rifiuti per rimediare qualcosa da mettere sotto i denti.

Anche i vertici del futuro nazismo avevano provato i morsi del dolore. Chi orfano e chi in lutto per due fratelli dispersi a Verdun. Non contava l’estrazione sociale: erano caduti aristocratici e popolani, professori di liceo e operai. Ci voleva un Führerprinzip. Lo pensava Hans Frank quando sentiva la musica di Brahms. Come Alfred Jodl mentre lo zio gli insegnava la filosofia. O Hans Fritzsche mentre stava all’ospedale con entrambi i piedi fratturati. O, ancora, Rudolf Hess incapace, da quegli anni, di liberarsi dalla sensazione del freddo al punto che in cella teneva sempre il cappotto sulle spalle anche nei giorni del caldo d’estate. Insomma, ci voleva un Hitler anche se, alla fine, il Führer «non ascoltava più nessuno, s’incaponiva e si circondava soltanto di persone che gli davano ragione». Meritandosi persino un velo di rimprovero: «Alla fine ci ha lasciati soli». L’essere stati abbandonati fisicamente lo consideravano un tradimento. Goldensohn notò che quegli imputati parlavano un inglese assi preciso. Non accettavano il dialogo e parlavano a ruota libera di ciò che più conveniva loro. Per questo giudicò che i commenti andassero presi con diffidenza. La Russia – pensiero comune – era un pericolo per il futuro. E i crimini dei quali dovevano rispondere non erano avvenuti per loro ordini. Addirittura: non erano a conoscenza che altri stessero eseguendo quelle nefandezze. Solo Streicher rivendicò, non senza compiacimento, che la politica antisionista andava fatta. Non sempre credibili questi personaggi – a giudizio di Goldensohn – e, tuttavia, niente affatto sciocchi. Il loro quoziente intellettivo – da una base di 90-100 – segnava punteggi da 139 a 148.

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Panorama

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