Non si può sfuggire al fascino Déco
- Postato il 26 giugno 2025
- Di Panorama
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È così pacifico che si sappia cosa sia l’Art Déco, a cui è dedicata a Milano una mostra giunta in prossimità della sua conclusione (Palazzo Reale, a cura di Valerio Terraroli, fino a domenica)? Non ne sarei sicuro, per cui proverò a introdurre l’argomento. L’avvento della modernità industriale è stato inteso dalla cultura romantica, la prevalente nel corso dell’Ottocento, come una minaccia non tanto all’arte, quanto all’antica sapienza artigianale che produceva applicazioni di bello nelle cose con cui si convive quotidianamente. L’idea era che la macchina non fosse in grado non solo di eguagliare l’abilità manuale di un buon artigiano, ma soprattutto la capacità di infondere spirito di umanità nel manufatto tanto da renderlo una creazione speciale. Dopo la metà del secolo – anche per la crescente consapevolezza che la civiltà industriale sia un progresso culturale e materiale che migliora inequivocabilmente le vite degli uomini – si ragiona su come le macchine possano svolgere ruoli paragonabili a quelli che venivano assolti dalla tradizione artigianale.
Tipiche di questo momento sono le Esposizioni universali e internazionali, presto imitate da quelle nazionali e di singolo settore, dove le nazioni si confrontano nell’intento di proporre le direzioni, non solo materiali, a cui affidare il futuro prossimo venturo. Le grandi Esposizioni sono di enorme sprone alla nascita delle «arti industriali», le applicazioni ottenute mediante macchina di cui ci si serve per individuare e diffondere stili sempre più condivisi internazionalmente, valevoli per ogni campo dell’estetico, in cui il gusto di un intero mondo in progresso possa identificarsi.
Il primo grande stile della modernità industriale è l’Art Nouveau, nei Paesi anglofoni e in Italia chiamato più spesso Liberty, Jugendstil in Germania, Modernismo in Spagna, consacrato dall’Esposizione universale di Parigi del 1900. È lo stile della Belle Époque, della società altolocata più edonista, che riversa il proprio ottimismo in un senso della decorazione globale ispirata alla morbidezza curvilinea della natura floreale. Diventa un en vogue, una tendenza dominante da fare propria se ci si vuole sentire al passo con i tempi.
La Grande guerra sbriciola il mito della Belle Époque e con essa dell’Art Nouveau come stile in grado di rappresentare lo slancio in avanti del mondo. Il nuovo stile internazionale della modernità, riflesso di una società che mira con particolare determinazione al benessere per dimenticare al più presto gli anni delle facili illusioni, diventa così l’Art Déco, lanciata proprio cento anni fa dall’Esposizione internazionale delle arti decorative e industriali di Parigi. Il padiglione italiano venne progettato dal neo-accademico Armando Brasini, e conseguirono riconoscimenti Gio Ponti, Galileo Chini, Vittorio Zecchin, Adolfo Wildt e Renato Brozzi. Ci si vuole contrapporre volutamente all’Art Nouveau, sostituendo al morbido curvilineo derivato dalla natura, la linea retta, gli angoli e i volumi che anelano invece all’astrazione geometrica. Sono elementi più confacenti al pragmatico razionalismo dell’epoca dell’elettricità ormai imperante, della comunicazione (la radio, la telefonia, il cinema, i rotocalchi illustrati, la pubblicità, la musica discografica), di trasporti sempre più veloci (gli autoveicoli, i treni, le metropolitane, i transatlantici, l’aviazione).
Tutto ciò che prima divagava, inducendo a languore tardo-romantico, sentimentalismo anche spicciolo e retorico, diventa ora discorso più concentrato e diretto, che pretende forme nette e sode, anche quando sinuose, sull’onda di un più generale rétour à l’ordre a cui non si rimane insensibili, rispettando però la funzione degli oggetti come mai era successo prima. Pubblico e privato, capitalismo e comunismo, democrazie e dittature, nessuno si sottrae al fascino del déco che ognuno declina a proprio modo, almeno fino a quando non si intravede all’orizzonte lo spettro di un nuovo conflitto mondiale.
La mostra di Palazzo Reale pone al centro dell’attenzione il déco italiano, grazie anche al fatto che il circondario svolse un ruolo decisivo sulla sua propagazione.
A Monza, per esempio, nascono sia l’Istituto superiore di arti industriali, sia le Biennali internazionali di arti decorative che dal 1933 si spostano a Milano quando sono già diventate Triennali. Ma la mostra non rinuncia a presenze straniere che rimarcano la dimensione internazionale dello stile.
Già prima del 1925 i cascami dell’Art Nouveau generano anche in Italia qualcosa di nuovo, come si può intuire dalla Fioriera leonina di Galileo Chini (1920), oppure dai pannelli ricamati e i mobili decorati di Vittorio Zecchin, poi anche straordinario progettista di vetri per Venini a Murano, che dal naturalismo pervengono a una stilizzazione di sapore etnologico (1920-24). Carlo Pizzi, scultore dannunziano, è fra i pochi a cercare di tenere il passo del visionario Wildt, ma con una pesantezza di fondo che preannuncia i successivi deliri di Ferruccio Vecchi.
Il déco italiano sembra riflettere più di altri sul rapporto con la storia, in particolare sulla forma a misura di geometria tramandata dal Rinascimento, trovando nel gruppo Novecento allo stesso modo un alleato e un rivale, che tende a fagocitare il discorso in una chiave più nazionalista.
Gio Ponti, architetto modernista attento come pochi altri alle applicazioni, è il grande protagonista del momento, grazie soprattutto alle ideazioni per le ceramiche Ginori, in cui la prospettiva si associa a originalità cromatiche e figurazioni esotiche che esulano dall’italianità in senso stretto.
Se Tommaso Buzzi aspira alla reinvenzione surrealista del classico, Alfredo Ravasco si specializza nel minerale lavorato da cui ottiene portagioie e centrotavola di genuina raffinatezza. Nicola D’Antino meridionalizza l’espressionismo dell’androgino proposto altrove dal tedesco Gerhard Schliepstein, mentre i vasi a bottiglia e globulari di Guido Andlovitz, i secondi praticati anche da Giovanni Gariboldi, rimandano a quelli di Morandi nel volersi dare come entità assolute. Dopo tanta oggettistica in dimensioni ridotte che potrebbe essere anche fuorviante, si esca fuori a cercare il déco in alcuni edifici simbolici di Milano come la Stazione centrale di Ulisse Stacchini, peraltro cominciata Liberty, o il Palazzo della Borsa di Paolo Mezzanotte.