Non invochiamo giustizia per chi fugge dalla legge

  • Postato il 9 luglio 2025
  • Di Panorama
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La settimana scorsa un giudice del Tribunale di Milano ha condannato Fares Bouzidi a 2 anni e 8 mesi di carcere per resistenza a pubblico ufficiale. I giornali hanno dato la notizia in poche righe, nelle pagine di cronaca locale. Curioso: per mesi il giovane tunisino è stato al centro di dibattiti e commenti, in tv e sulla stampa. Bouzidi la notte tra il 23 e il 24 novembre dello scorso anno era alla guida di uno scooter che non si è fermato all’alt di una pattuglia di carabinieri. Così, per le vie del capoluogo lombardo, è iniziato un inseguimento serrato, che ha coinvolto diverse auto dell’Arma. Dopo otto chilometri, lo scooter si è schiantato contro il palo di un semaforo e un ragazzo egiziano di 19 anni, Ramy Elgaml, che sedeva sulla parte posteriore della sella, è morto.

La dinamica dell’incidente era chiara fin dall’inizio: avendo forse qualche cosa da nascondere, i due giovani sono fuggiti, ingaggiando una pericolosa gincana con le gazzelle dei carabinieri. Nonostante non ci fossero dubbi sulla responsabilità di Bouzidi di non essersi fermato all’alt e di aver messo a repentaglio la vita del giovane che viaggiava con lui, commentatori e politici si sono scagliati contro i carabinieri, rei di aver fatto il proprio dovere, ovvero di aver inseguito i sospetti. Una parlamentare del Pd è riuscita addirittura a definire assassini i militari che hanno dato la caccia ai due fuggiaschi, e un ex capo della polizia, forse in cerca di visibilità o di altro, si è messo a impartire lezioni su come si debbano fare gli inseguimenti, lasciando intendere che i carabinieri avrebbero potuto prendere il numero di targa. Per settimane è stata accreditata l’ipotesi che la gazzella delle forze dell’ordine avesse speronato lo scooter, provocando la morte di Ramy. E in città, nel quartiere popolare in cui il giovane egiziano viveva, centri sociali e immigrati hanno dato vita a blocchi stradali, incendiando cassonetti e rifiuti.

Poi è arrivata la perizia disposta dalla Procura, con cui si è chiarito che l’auto dei carabinieri non ha provocato volutamente l’incidente. Nessuna intenzione, dunque, di far cadere Bouzidi e Elgaml. Semplicemente, affrontando la curva ad alta velocità il guidatore ha perso il controllo del mezzo andando a urtare l’auto e poi schiantandosi contro il palo. Fine, quindi, di tutte le ricostruzioni di parte. Di tutte le accuse contro gli assassini in divisa. La sentenza è arrivata con la formula del rito abbreviato: 2 anni e 8 mesi, con la confisca della collanina d’oro e degli 850 euro che furono trovati addosso a Bouzidi e che gli investigatori ipotizzarono fossero il frutto di qualche reato e la ragione per la quale i due extracomunitari, invece di fermarsi all’alt, fuggirono.

Il giudice, oltre a condannare il giovane tunisino a una pena detentiva, ha disposto anche un risarcimento di 2 mila euro a favore dei sei carabinieri che parteciparono all’inseguimento. Secondo il magistrato, come conseguenza delle dichiarazioni di Bouzidi, i militari hanno subìto un danno morale, perché accusati di aver provocato l’incidente. I legali dell’imputato hanno annunciato che ricorreranno in appello, ritenendo troppo elevata la pena comminata al loro cliente, ma a prescindere da ciò, gli stessi avvocati hanno dichiarato che Fares si è reso conto di aver assunto quella notte «una condotta scorretta».

Il processo in cui è stato condannato il giovane tunisino tuttavia non è chiuso, perché non ha preso in esame le conseguenze della pericolosa fuga che ha portato alla morte di Ramy. Se con il proprio comportamento qualcuno, anche non volendolo, causa la morte di una persona, rischia l’accusa di omicidio colposo. Correre a cento all’ora per le vie del centro, facendo gincana tra le auto, forse non è un omicidio preterintenzionale, ma è difficile non considerare che l’incidente in cui è deceduto il giovane Elgaml non abbia un colpevole, le cui responsabilità vanno oltre la resistenza a pubblico ufficiale. Sarà un giudice poi a stabilire il grado di colpevolezza, ma il primo ad avere sulla coscienza la morte di Ramy è Bouzidi, non certo i carabinieri che lo inseguivano. I quali semmai hanno rischiato la vita. Come l’ha rischiata, perdendola, il brigadiere Carlo Legrottaglie, il quale nel Brindisino, a pochi giorni dalla pensione, ha inseguito un rapinatore e da questi è stato assassinato. Peccato che giornali e tv abbiano dato più spazio alla morte di Ramy, con relative accuse ai carabinieri di averla provocata, che alla fine di un servitore dello Stato. Ore e ore di discussione nei talk show e sulle prime pagine per due giovani in fuga dalle forze dell’ordine, niente o quasi per il carabiniere assassinato. Per Ramy ancora si chiede giustizia, ma chi la chiederà per Carlo Legrottaglie? È per lui che bisogna invocare giustizia, non per chi fugge dalla giustizia. E già che ci siamo, politici e giornalisti dovrebbero anche chiedere scusa. Non al povero sottufficiale morto a un mese dal compimento del suo sessantesimo compleanno, ma a tutti quei servitori dello Stato che oltre a fare il proprio dovere rischiando la pelle devono anche sentirsi chiamare assassini.

Autore
Panorama

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