“Non è un lavoro per madri”, il libro che spiega perché le neo mamme lasciano il lavoro e come cambiare le cose
- Postato il 16 dicembre 2025
- Diritti
- Di Il Fatto Quotidiano
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L’occupazione femminile? A fine 2025 la questione non è più, solo, quella di favorirla, ma anche e soprattutto di ripensare radicalmente l’approccio alla conciliazione tra lavoro e famiglia. E cioè di “garantire condizioni strutturali e culturali che rendano la genitorialità compatibile con la piena cittadinanza economica e sociale”. È la conclusione del volume Non è un lavoro per madri. Perché la maternità in Italia resta un ostacolo al lavoro, a cura di Roberto Rizza, Lorenzo Cattani, Giovanni Amerigo Giuliani e Rebecca Paraciani (Fondazione Feltrinelli). “Occorre ripensare i tempi e le modalità del lavoro pagato e non, sono senz’altro necessari investimenti nei servizi di cura e ciò che appare indispensabile è rivedere le rappresentazioni culturali della maternità e della paternità in Italia. Per farlo è necessario un dialogo tra più attori e ambiti: il mondo economico, il primo e secondo welfare, il mondo della ricerca, l’opinione pubblica”, sostengono gli autori che per il loro lavoro si sono basati su una variegata massa di dati empirici.
Non è un lavoro per madri indaga le ragioni profonde del fenomeno delle dimissioni volontarie delle neomamme: negli ultimi decenni le donne hanno scalato i livelli di formazione e qualificazione professionale, ma la transizione si è scontrata con la “persistenza di barriere strutturali e simboliche, esasperate dalla maternità” che rappresenta una cesura significativa nelle “carriere lavorative femminili: riduzione del tasso di occupazione, maggiore ricorso al part-time involontario, contratti precari e minore accesso a posizioni apicali, sono tutti elementi che testimoniano una penalizzazione sistematica“. Il testo si basa su dati nazionali contenuti nei rapporti annuali dell’Ispettorato del Lavoro dal 2012 in poi e sull’esperienza del Piano per l’Uguaglianza di Bologna, con oltre seicento casi di genitori, per lo più le madri, che hanno lasciato il lavoro in seguito all’arrivo di un figlio. “Tutto questo serve anche a fare una riflessione sul valore dell’indipendenza economica come fattore di emancipazione che può essere uno strumento per prevenire la violenza di genere. Ma le soluzioni esistono”. Tuttavia, “soltanto la combinazione tra politiche innovative e un’autentica cultura dell’uguaglianza può produrre un cambiamento reale, trasformando la maternità da ostacolo percepito a valore condiviso“.
Il dato di partenza è che le dimissioni dei genitori in Italia sembrano “una questione tutt’altro che neutra in termini di genere e un fenomeno che tende a penalizzare prevalentemente le madri a causa delle forti disparità nella ripartizione del lavoro di cura“. Ed è proprio il lavoro di cura ad essere il fattore chiave per l’uscita dal mercato del lavoro, soprattutto quando non ci sono politiche di supporto alla genitorialità. Come succede in Italia, dove quando ci sono le leggi non sono i soldi. Ma vediamo i dati. Secondo gli ultimi numeri forniti dall’Ispettorato nazionale del lavoro, nel 2025 sono state convalidate 60.756 dimissioni di neogenitori. Di queste, il 69,5 per cento (42.237) ha riguardato donne. Per le quali il 63 per cento delle dimissioni è stato attribuito alla difficoltà di gestire simultaneamente le responsabilità lavorative e familiari, indicando una persistente difficoltà nel bilanciare carriera e cura dei figli. “Nonostante la marcata disuguaglianza di genere, va sottolineato che il fenomeno delle dimissioni da parte dei padri è in costante aumento negli anni”, è l’unica nota di ottimismo.
Quanto ai servizi per l’infanzia, nel 2022 in Italia, solo il 30,9 per cento dei bambini al di sotto dei tre anni risultava iscritto al nido, ma di questi, solo il 20,1 per cento li frequentava per più di 30 ore settimanali (Eurostat, 2024). “L’obiettivo definito a livello europeo del 45 per cento appare lontano a causa soprattutto di due principali distorsioni: una di natura reddituale (il cosiddetto effetto Matteo), e una territoriale (il cosiddetto effetto Matteo territoriale). Nel primo caso, sono soprattutto i figli delle persone più istruite ed abbienti a frequentare gli asili nido; nel secondo caso le aree che necessiterebbero maggiormente tali servizi – prima di tutto il Mezzogiorno – sono proprio quelle in cui l’offerta risulta più carente con evidenti ripercussioni sulla parità di genere”, è l’analisi. Ma non finisce qui. L’Italia e i Paesi del Mediterraneo sono tra quelli con i tassi di fertilità e occupazione femminile più bassi, mentre i Paesi scandinavi e anglosassoni hanno dati di segno opposto in entrambi gli ambiti. “Questo cambiamento è stato attribuito all’introduzione di politiche per la conciliazione tra lavoro e famiglia, come il congedo parentale e i servizi di assistenza all’infanzia”, è la conclusione secondo la quale le politiche per la famiglia hanno ridotto l’incompatibilità tra lavoro e maternità, favorendo l’occupazione femminile senza danneggiare i tassi di fertilità: “Sebbene il dibattito sulla direzione della causalità tra i due fattori sia stato acceso, le evidenze suggeriscono che le politiche di conciliazione siano fondamentali per mantenere l’equilibrio tra carriera e genitorialità”.
Non solo. In paesi come Svezia, Norvegia o Germania, l’adozione di modelli di welfare orientati alla defamiliarizzazione delle cure ha portato a risultati migliori sia in termini di occupazione femminile, sia di equità di genere. In Francia il sostegno pubblico alla genitorialità è stato realizzato attraverso un mix di trasferimenti monetari e servizi accessibili, che hanno ridotto la pressione sulle madri. Passo in avanti in Germania, dove “la riforma del parental benefit e la promozione dell’ElterngeldPlus (parental allowance plus) hanno incentivato un maggiore coinvolgimento dei padri, modificando nel tempo le aspettative sociali attorno alla divisione dei ruoli“. Sorpresa, poi, in un paese dell’Europa meridionale come la Spagna, dove “i cambiamenti sono stati molto accentuati nelle ultime decadi, culminando nella definizione di una normativa che eguaglia la durata del congedo obbligatorio tra madri e padri”. Esempi che “mostrano che il cambiamento è possibile quando le politiche sono coerenti, integrate e orientate a obiettivi di lungo periodo”. Il caso italiano, invece, “è ancora caratterizzato da improvvisazione, frammentazione e discontinuità. Una tendenza che non è immune da derive ulteriori aggravate dalla crisi demografica e dal continuo calo della natalità”.
Criticità anche in un contesto all’avanguardia come quello bolognese. “Le madri che si dimettono a Bologna segnalano ostacoli simili a quelli osservati a livello nazionale: difficoltà nella gestione dei tempi di lavoro, scarso supporto organizzativo da parte delle imprese, mancanza di corresponsabilità genitoriale da parte del partner. Questa disamina conferma l’idea che le dimissioni volontarie non possano essere interpretate come semplici scelte individuali, ma debbano essere comprese alla luce di un contesto multilivello, in cui interagiscono fattori macro (assetti di welfare e istituzionali, condizioni strutturali del mercato del lavoro), meso (culture organizzative e modalità gestionali delle imprese, condizioni familiari) e micro (preferenze, biografie, caratteristiche individuali)”, spiegano gli autori. Secondo i quali il caso bolognese “rafforza l’idea che le politiche locali, pur importanti, non possano da sole compensare le lacune del quadro nazionale. È necessario un cambiamento sistemico che coniughi interventi strutturali, promozione culturale e incentivi al cambiamento organizzativo”.
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