Nietzsche e Marx non si sono mai dati la mano
- Postato il 14 dicembre 2025
- Antropologia Filosofica
- Di Paese Italia Press
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No. Non è assolutamente vero che Nietzsche e Marx si davano la mano. Un costruttore di pensiero nella decomposizione delle idee e un ideologo del materialismo teologico non potevano darsi la mano. È la farsa del relativismo che si vuole mettere in atto, e il risultato è proprio quella debolezza che la cultura sia laica che cattolica mostrano nel teatro dell’ovvio.
Non si vuole prendere atto che siamo dentro le macerie, e che siamo diventati anche noi macerie purulente che lasciano intorno rovine in frammenti. Marx non è un pensiero. È un’idea che ha fatto del suo storicismo l’invenzione di una “cosa”, ovvero della “Cosa”.
L’assorbimento della massificazione della morte, che si consuma nella storia, in un asservimento della materia. L’assimilazione del non simile. L’individuo che non è persona ma è inesistente senza la massa o il collettivo. L’individuo, appunto, che diventa cosa, non ha spiritualità o “anima” e diventa correlazione con l’oggetto come proiezione del caso.
In Nietzsche c’è il tragico e il destino che convivono con il caos sino a toccare le sponde dell’al di là del bene e del male, che fa del Cristo un ecce homo. Il sopravvento del tutto è il sopraggiungere della metafisica o del meta-fisico, che Marx non ha mai conosciuto e che Nietzsche ha dolorosamente abitato, attraversato, ancorato alle porte della disperazione del tempo.
Entrambi non comprendono ancora quell’“essere gettati nel mondo” che proietterà Heidegger verso l’essere, che per esistere ha necessariamente bisogno del tempo. Ma Pascal aveva ricucito il senso della verità con il dubbio e Kierkegaard aveva restituito alla vita la temporalità dell’agonia. Tuttavia questi ultimi non erano affascinati dall’ideologia.
La metafisica è religiosità.
La religione della spiritualità si trasforma in un urlo agonizzante per la vita e per la consapevolezza che il dolore del tempo ci salverà attraverso la speranza. Dopo Nietzsche si entrerà nel crepuscolo. In quel crepuscolo della modernità che lascerà intorno la cenere dei pensieri che Cioran chiamerà “crepuscolo del pensiero”. Nel mezzo coabitano la visione dell’estraneità che si dissolverà nella caduta e nella rivolta, il cui vero interprete resta Camus. Ma Marx non è che sia superato. Non c’è. Lo si trova in Sartre e nella scuola marxiana, ovvero nella scuola di Francoforte.
Ciò vuol dire che l’annientamento dell’uomo sfida l’umano troppo umano, che non riconosce, quest’ultimo, alcuna motivazione ideale nell’ideologia stessa. Lo stesso Cioran, interprete di un mondo completamente sfracellato, non accetta la visione dall’ideologia.
Compie una vera metamorfosi del concetto di idea. Spoglia l’idea dal suo incipit singolare e crea la sua frammentazione, risolvendo il tutto in Pensiero. Lo fa con la consapevolezza di togliere all’idea l’errore di trasformarsi in ideologia.
È chiaramente un’operazione anti-hegheliana, scorporandola dalla “passione” della fenomenologia. Cioran spacca il guscio della prassi e fa dell’azione il dubbio del meta-fisico. È un concentrato di mosaico adottato anche da Sgalambro nella “Morte del sole”.
Quando il sole muore ci resta la memoria, ovvero un tempo che non c’è più; ma bisogna vivere la notte sia come ombra sia come buio. È ancora Nietzsche che interpreta il viaggio del viandante che cerca il deserto, perché l’infinito invito al viaggio di Baudelaire necessita del mistero alchemico di Mallarmè.
Può reggere tutto ciò?
Credo di no.
La pietra filosofale, prima di essere tale, era semplicemente roccia dura o il masso di Sisifo. Ma Sisifo incarna il mito, e il mito, senza un taglio di bosco nel quale può intravedersi un dettaglio di luce, non ha senso.
Ognuno di noi o cerca o è trovato. Cosa significa questo? Che in qualche parte del tempo e dell’essere siamo stati o saremo un piccolo spazio aurorale.
È certo che Maria Zambrano è al confine della ragione poetica perché, come gli antichi sciamani, si getta heideggerianamente nel mondo per aspettare, nell’esilio delle solitudini, la Grazia.
Si esce dunque dal labirinto. Mentre Nietzsche ci resta e Marx è completamente sradicato perché finisce nella sua storia delle cose.
Insomma, il disegno della Grazia è l’utopia benedicente dei mistici — aspetto che Marx non ha mai conosciuto o compreso e che Pitagora e Seneca avevano già disegnato in una geografia di miti, archetipi e simboli.
Saranno Paolo, Agostino e Gioacchino da Fiore a realizzare la civiltà del sacro che rispetta l’umano.
Nei volti degli archetipi della modernità, l’incarnazione di Zarathustra, di Siddhartha e di Anatol mostreranno la tragedia e la pietà di noi eredi flagellanti ai piedi della Croce.
Ha perfettamente ragione Cioran quando afferma che noi moderni, pur non riconoscendoci nella modernità, siamo eredi e testimoni dei flagellatori e dei flagellati.
In tutto questo, Nietzsche e Marx non si sono mai dati una mano: due costruttori (costruzione e annientamento, anzi) che hanno annientato l’uomo nella tragedia e l’uomo nella storia. Comunque se Nietzsche resta ancora in qualche angolo, Marx è completamente fuggito.
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