“Nelle classifiche vedo stanchezza, omologazione, non c’è nulla che sposti davvero qualcosa. I giovani hanno l’energia giusta”: Carlo Pastore presenta MI AMI 2025

  • Postato il 14 maggio 2025
  • Musica
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Dal 22 al 25 maggio, torna il MI AMI all’Idroscalo di Milano con la diciannovesima edizione, che per la prima volta cambia area ma rilancia la sua identità. Nuova casa, stesso spirito: quattro giorni di musica dal vivo, oltre settanta artisti in cartellone e un programma che unisce grandi ritorni e scommesse coraggiose. Il tema di quest’anno è “Il veleno e la cura”, un invito a guardare in faccia la complessità del presente – tra disumanità, crisi ambientali e guerra – e a rispondere con ciò che resta umano: la musica, la collettività e l’ascolto. Il Festival si apre giovedì 22 con un day 0 con il debutto italiano di Bladee, artista svedese tra le figure più influenti dell’internet rap contemporaneo. Venerdì 23 e sabato 24 i due giorni centrali, con quattro palchi attivi e live completi. Si chiude domenica 25 con un evento gratuito al Parco Ravizza.

Tra gli ospiti: Diodato, Noyz Narcos, Joan Thiele, Fast Animals and Slow Kids, Psicologi, BNKR44, Emma Nolde, Giuse The Lizia, Sayf, Centomilacarie, Lorenzza, e le uniche date italiane di Alice Phoebe Lou (SudAfrica) e The Pains of Being Pure at Heart (USA). E poi ancora: metal con i Messa, stand-up comedy con Turbopaolo, elettronica con Camoufly, psichedelia con Neo Primitivi, cantautorato, e non mancherà l’urban, jazz, rock e sperimentazione.

Il MI AMI resta, come ogni anno, una fotografia aggiornata delle tensioni artistiche del presente. Ma soprattutto una dichiarazione d’intenti: fare un festival oggi significa scegliere da che parte stare. Dietro la direzione artistica del MI AMI c’è Carlo Pastore, che da vent’anni costruisce il festival come un laboratorio permanente: di musica, di visioni e di sguardi sul presente e futuro. Con lui abbiamo parlato delle novità di quest’anno, della filosofia che tiene insieme il progetto, delle sfide del settore e di cosa significa, oggi, fare un festival indipendente in Italia.

Quali sono le principali novità del MI AMI di quest’anno?
La vera novità, paradossalmente, è che ci siamo ancora. In un mercato dominato da grandi gruppi che si spartiscono quasi tutto, il fatto che una realtà come la nostra esista ancora – e che arrivi a vent’anni di storia – per me è quasi miracoloso. Non solo ci siamo, ma investiamo su noi stessi: ci spostiamo in una nuova location più grande, sempre all’Idroscalo di Milano, ma 500 metri più in là rispetto al Circolo Magnolia. È un’area finora quasi mai utilizzata per un evento multipalco come il nostro. Quattro palchi, oltre 70 artisti in due giorni centrali, più un centinaio complessivamente durante i quattro giorni di festival. È un passaggio importante: dopo la maggiore età simbolica della diciottesima edizione, il MI AMI “va a vivere da solo”, lasciando casa ma rimanendo nel quartiere, per così dire. Cambia la forma, ma resta il senso.

Quale sarà la formula?
Il format sarà questo: venerdì e sabato sono i due giorni principali, con la formula full festival; giovedì ospitiamo un Day Zero con il primo live italiano di Bladee, artista centrale della scena hypertrap internazionale, mentre domenica chiudiamo con un evento gratuito al Parco Ravizza, in centro città. L’apertura con Bladee ci permette anche di introdurre il tema dell’edizione 2025, “Il veleno e la cura”: partiamo dal veleno, ma poi costruiamo spazi che siano cura. E il festival è questo: una festa, sì, ma anche un modo per stare meglio, insieme.

Quali sono, secondo te, i punti di forza di questa edizione?
Il nostro punto di forza resta lo stesso da sempre: saper raccontare la musica italiana – e sempre di più anche quella internazionale – dentro un contesto positivo, sia per chi la suona che per chi la ascolta. MI AMI ha sempre cercato di leggere e sostenere le nuove istanze della scena locale, di chi fa musica in Italia, ma oggi lo facciamo inserendole in una visione più ampia, globale. Per dire: avere Bladee è importante non solo per quello che rappresenta, ma anche per il dialogo che apre con artisti italiani come Emma, 18K o Azael, che in qualche modo ne raccolgono l’eredità. Lo stesso vale per Alice Phoebe Lou o i The Pains of Being Pure at Heart, che con i loro stili hanno influenzato una parte significativa della nuova scena italiana, da Ginevra a Emma Nolde. Non è solo programmazione: è costruzione di senso. Poi c’è la formula stessa, che in Italia è abbastanza unica. Siamo uno dei pochissimi festival multipalco veri, con decine di artisti in due giorni e una forte componente di scoperta. E soprattutto c’è quella cosa impalpabile ma centrale: la magia. Il fatto che in un certo momento, in un certo posto, si generi un’umanità condivisa. La musica è il cuore, ma sono le connessioni che fanno la differenza.

Che effetto fa vedere tornare sul palco artisti che avete lanciato come BNKR44, Psicologi e Giuse The Lizia?
È un’emozione grande, anche a livello personale. Non è solo una questione artistica: sono percorsi umani che si incrociano. Giuse ha fatto il suo primo live durante il Covid, nel 2021, al nostro format “Mi Manchi”. I BNKR44 hanno esordito proprio all’Idroscalo nel 2020, nella stessa location di quest’anno. Gli Psicologi, nel 2019, fecero il loro secondo concerto di sempre. Un anno dopo l’altro, dal 2019 al 2021, abbiamo visto nascere tre progetti che oggi tornano sul main stage. Ed è bello anche perché quest’anno il main stage è più grande, con una capienza maggiore rispetto al passato. È come crescere insieme: ci si guarda allo specchio e si riconoscono i cambiamenti, ma anche la coerenza del percorso. E poi c’è quell’orgoglio silenzioso, che non ha a che fare con il “li abbiamo lanciati noi” – perché i dischi, le canzoni e le storie sono loro – ma con l’averci creduto nel momento giusto. E con il fatto che oggi, dopo vent’anni, abbiamo ancora voglia di farci il mazzo, perché queste cose valgono la fatica.

Chi sono gli outsider e gli emergenti da tenere d’occhio quest’anno?
Domanda difficile, perché ogni artista in line-up ha una ragione per essere lì. È come quando chiedi a un cantautore qual è la canzone preferita del disco: sono tutti “figli”. Però ti cito cinque nomi, sapendo che ne lascio fuori troppi. Il primo è Prima Stanza Destra, un progetto napoletano misterioso, farà il suo primo live proprio al MI AMI. È nato su TikTok, con video di paesaggi accompagnati da musica originale. Il sound sta tra French Touch e James Blake, con una dimensione quasi cinematografica. Molto interessante. Poi c’è Saif, un artista di seconda generazione, viene da Genova. L’ho visto dal vivo e mi ha colpito fortissimo. Ha qualcosa di Ghali, Tedua, Stromae e Brech, un urban pop nuovo, potente. Potrebbe essere uno dei prossimi nomi grossi. Con i Messa cambiamo genere. Sono una band metal italiana che ha una fanbase forte all’estero. Portano un nuovo disco e rappresentano l’arrivo ufficiale del metal al MI AMI. È una novità anche per noi. I Neo Primitivi, formazione psichedelica romana, presentano un progetto interessante, sperimentale ma con un’impronta fortissima. Il disco Orgia Mistero è un oggetto strano e affascinante. Infine Camouflage, un DJ con un suono molto potente. Penso diventerà presto un nome di riferimento nei dancefloor, è uno di quelli da tenere d’occhio adesso per dire “io c’ero”.

Come vedi la musica italiana di oggi, soprattutto quella delle nuove generazioni da Centomilacarie a Olly?
Centomilacarie è uno di quelli che abbiamo fatto debuttare al MI AMI e che quest’anno torna, al venerdì, in quella che mi piace chiamare “la giornata dei ragazzi diventati adulti”. Ha 20 anni, ma porta una scrittura già matura. In generale, io credo che oggi tra i giovani ci sia l’energia che manca altrove. Nelle classifiche vedo stanchezza, molta omologazione, fatica ad ascoltare qualcosa che sposti davvero. Ma nei più piccoli – quelli che hanno tra i 15 e i 25 anni e che hanno attraversato il Covid in pieno – ci sono barlumi di speranza fortissimi. Hanno linguaggi nuovi, scrivono in modo diverso dai millennial, portano un’energia autentica. Sono ancora poco visibili, ma ci sono. Il MI AMI prova a intercettarli proprio lì, prima che diventino “il prossimo nome forte”. E spesso sono loro, proprio perché così giovani, ad avvicinare il loro pubblico al formato festival. Non sono “prodotti”, ma persone. E la magia del festival, quella vera, nasce proprio da questa connessione.

Linus ha detto: “Siamo in una fase in cui la musica italiana è poca cosa. I cantanti italiani si accontentano di fare cose carine e pensano più ai vestiti che alle canzoni.” Sei d’accordo?
Ha usato parole molto nette, ma nel merito non è lontano da quello che penso anch’io. Il mainstream italiano oggi, con poche eccezioni, è davvero noioso. Una fabbrica di canzoni tutte uguali, che sembrano uscite dallo stesso stampo. Io fatico ad ascoltarlo, mi sento distante. Ma per fortuna, facendo il MI AMI, posso permettermi il lusso di guardare altrove. Vedo ragazzi e ragazze che tornano in saletta a provare, band che si riformano, producer che fanno cose nuove e non banali. C’è fermento, solo che non è ancora al centro. Siamo in una fase di risacca, un po’ conseguenza dei grandi successi recenti e della centralità che ha ripreso Sanremo. Ma credo che tra due o tre anni vedremo emergere una nuova scena forte. E se vogliamo che succeda, dobbiamo esserci adesso, quando è ancora fragile. Il MI AMI c’è. E ci sarà anche dopo.

Sei diventato caporedattore di Rockit a 19 anni. Oggi il giornalismo musicale sembra faticare a trovare spazi. Esistono ancora ancore di salvezza?
Quando ho iniziato, a 19 anni, non avevo piena consapevolezza di cosa significasse davvero fare giornalismo. Ma avevo una motivazione fortissima, e la volontà di contribuire a qualcosa che avesse un senso per me e per la scena che amavo. Oggi il giornalismo serve ancora, ma bisogna smettere di pensarlo solo in termini nostalgici. Il contesto è cambiato: la disintermediazione ha fatto saltare i vecchi ruoli. Oggi puoi scoprire un disco in autonomia, senza bisogno che una rivista te lo segnali. Ma il bisogno di persone capaci di raccontare, interpretare e spiegare non è mai scomparso. È solo cambiata la forma. Oggi anche un creator su TikTok, un youtuber o un influencer può fare giornalismo. Penso a chi racconta un disco con profondità, ma anche a chi analizza una guerra o documenta un massacro come quello in corso a Gaza. Se lo fai con lucidità, responsabilità e contenuto, stai facendo informazione. Non importa che tu lo faccia su carta o in video. Noi al MI AMI abbiamo voluto coinvolgere due giovani creator che stimo molto, Matteo Bevi e Besneeh. Non si definiscono giornalisti, ma fanno divulgazione musicale a tutti gli effetti. Il vero tema, però, resta sempre lo stesso: la sostenibilità. Quanti sono disposti a pagare per contenuti culturali? Io, ad esempio, pago tre newsletter musicali (tutte americane). In Italia è ancora un modello debole. Ma se non troviamo un modo per far sopravvivere questi contenuti, resta tutto un gioco per pochi privilegiati. E io, francamente, quel gioco non me lo sono mai potuto permettere.

Che ricordi hai della tua esperienza a MTV?
Ho cominciato con il MI AMI prima ancora di approdare in tv. Il festival è nato nel 2005, io sono arrivato in video nel 2007, anche se già nel 2006 lavoravo in redazione. Quindi MTV è arrivato dopo, ma è stato un giro in giostra spettacolare. All’epoca MTV era ancora centrale, i videoclip passavano in chiaro e la tv era il mezzo dominante. Ho avuto un programma dove potevo mandare in onda video di Arctic Monkeys, Regina Spektor, Arcade Fire… Intervistavo Futureheads, Ben Harper. Un altro mondo. Mi ha insegnato tanto, ma mi ha anche aiutato a capire cosa non volevo fare. È un’esperienza che mi ha formato, ma non ho mai voluto replicare. E comunque, quel mondo lì oggi non esiste più. YouTube è nato nel 2005, venduto a Google nel 2006. Da lì è cambiato tutto: i video hanno trovato un’altra casa, più libera. E poi sono arrivati i social. Oggi MTV, quella MTV, è preistoria.

In tv si parla ancora di “giovani”, ma i volti sono spesso over 35: De Martino ha 35 anni, Cattelan 44. È un fenomeno solo italiano? Siamo un Paese per vecchi?
Io quest’anno ne compio 40, quindi anagraficamente faccio già parte dei “vecchi”. Ma non nel modo in cui guardo al mondo. Detto questo: sì, siamo un Paese per vecchi, lo dicono i numeri. I giovani in Italia sono pochi, e quando sei una minoranza, per sopravvivere, finisci per adattarti. Diventi vecchio in fretta, ti mimetizzi. Cito spesso una riflessione del geopolitico Dario Fabbri: in Italia i giovani non sono davvero giovani, perché tutto attorno a loro è vecchio. E allora si comportano da vecchi anche loro, si allineano, abbassano la testa. Ma i giovani, quelli veri, fanno paura. Vogliono tutto e subito, rompono gli equilibri. Al MI AMI cerchiamo di dare spazio a quella vitalità lì. Non facciamo finta di essere giovani noi – sarebbe ridicolo – ma proviamo a portare sul palco chi lo è davvero, chi ha qualcosa da dire e ancora spaventa perché non è incasellabile. È una questione di visione, più che di età.

Dopo vent’anni, che bilancio fai dell’esperienza MI AMI? Cosa lo rende unico in Italia?
Il bilancio è che siamo ancora qui. E già questo, in Italia, nel nostro settore, è tanto. Il MI AMI è un unicum per diversi motivi, ma se devo sceglierne uno, è questo: facciamo suonare davvero gli artisti. Non due pezzi in playback, non set da tre canzoni e via. Ma concerti interi, veri. Ed è assurdo, ma ancora oggi dobbiamo spiegare la differenza. Molti eventi con decine di nomi in cartellone sono rassegne, non festival. Da noi, in un solo giorno, ci sono più di 30 concerti completi. È un altro tipo di esperienza, che va vissuta. E che va anche sostenuta: fare un festival così, in Italia, con i costi post-Covid alle stelle – cachet, logistica, materiali e costo del lavoro – è complicatissimo. Ci piacerebbe riuscire a renderlo ogni anno un po’ più solido, un po’ più sostenibile, anche economicamente. Farlo crescere senza snaturarlo. Il sogno è che bastino la nostra community e i partner giusti per permetterci di migliorare, edizione dopo edizione, senza dover scendere a compromessi. Questo è l’auspicio per il futuro. Ma per ora, siamo concentrati sul presente.

State già pensando al MI AMI 2026? Ci puoi anticipare qualcosa?
Il fatto stesso di essere in una nuova location ci ha spinti a pensare a un progetto almeno triennale. Quindi sì, il MI AMI 2026 esiste già come orizzonte. Non ci sono grandi scoop da dare ora, perché tutto dipenderà anche da come andrà questa edizione. Ma l’impegno con questo nuovo spazio c’è, e l’idea è quella di farlo crescere anno dopo anno. Quello che chiediamo al pubblico è semplice: buttatevi dentro con noi. Aiutateci a farlo diventare ciò che può essere. Magari quest’anno sbaglieremo qualcosa – è fisiologico – ma l’importante è arrivare all’edizione successiva pronti a correggere. E se ci arriviamo solidi, insieme, sono sicuro che ci toglieremo delle belle soddisfazioni.

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