Nella mente di un populista. Così Kassam legge l’approccio Trump al sistema internazionale
- Postato il 5 marzo 2025
- Esteri
- Di Formiche
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Ci sono pochi dubbi sul fatto che, sin dal suo arrivo alla Casa Bianca, l’attuale presidente statunitense Donald Trump (e con lui il suo vice J.D. Vance) abbiano spostato gli assi della politica americana tanto nella dimensione interna che in quella di politica estera. Ed è particolarmente nella seconda categoria che, fino ad ora, le conseguenze sono state più visibili e dirompenti: dalle dichiarazioni sulle ambizioni territoriali di Washington verso Groenlandia e Panama, al cambio di tono con alcuni dei partner storici degli Usa come Canada ed Europa, fino al totale capovolgimento della posizione della Casa Bianca sull’Ucraina, che è passata dall’essere nettamente anti-russa ad essere anti-ucraina (o quantomeno anti-Zelensky), mentre il Cremlino, da nemico da combattere, è diventato un partner da recuperare. Con gli eventi relativi al recente incontro tra Zelensky e Trumo nello Studio Ovale che sono la rappresentazione plastica di questo nuovo equilibrio.
“Un cambiamento monumentale, non solo un battibecco”, sono le parole con cui Raheem J. Kassam, redattore capo della testata populista americana The National Pulse (legata all’universo mediatico di Steve Bannon), definisce il diverbio tra il leader ucraino e i due esponenti di punta del governo statunitense, inserendo quanto avvenuto all’interno di una più ampia “Dottrina Trump-Vance”. In un suo editoriale, intitolato appunto The Trump-Vance Doctrine: A Monumental Shift, Not Just a ‘Spat’, Kassam fornisce il punto di vista della far-right (anglo)americana sulla questione dell’Ucraina: secondo l’autore, l’impegno militare in Ucraina non è dovuto innanzitutto a questioni di principio della difesa della democrazia liberale, poiché un Paese dove non si svolgono elezioni non è considerabile tale. Dimenticando così i molteplici precedenti storici in cui Paesi democratici hanno posposto lo svolgimento delle elezioni per motivazioni belliche, senza tuttavia perdere il loro status di democrazie (o la Gran Bretagna di Winston Churchill, la stessa che ha sconfitto Hitler e firmato la Carta Atlantica, era forse un’autocrazia e nessuno se ne è reso conto sino ad ora?).
Kassam prosegue nel sottolineare che l’evoluzione degli eventi in Ucraina siano stati causati dal “naturale espansionismo burocratico” dell’Unione europea, e contestualizzando con tono quasi giustificativo le azioni del Cremlino di fronte “all’Ue, alla Nato e alla Cia che parcheggiano letteralmente i loro carri armati sul prato della Russia” (la sorpresa qui è doppia, non solo perché per il tipo di operazioni che svolge la Cia non era sospettabile come utilizzatrice di carri armati, ma soprattutto perché è la stessa Unione Europea ad avere dei carri armati, e quindi una capacità di proiezione dell’hard power. Forse sarebbe il caso che i leader europei, in questi giorni affannati a trovare un modo per potenziare gli arsenali dell’Unione, siano messi a conoscenza dell’esistenza di simili capacità militari ).
Paradossalmente, nel paragrafo successivo Kassam si contraddice da solo, affermando che l’Unione europea non ha il potenziale militare per raggiungere una sua autonomia strategica rispetto agli Stati Uniti. E lo fa all’interno di un discorso più ampio, dove individua (giustamente) nella tendenza europea al cosiddetto “anti-appeasement” una delle motivazioni più forti dietro alla volontà di sostenere la lotta di Kyiv contro Mosca. Ma non abbastanza forte per la nuova America, il cui interesse principale è quello di “creare un cuneo tra la Russia e la Cina”, senza curarsi degli interessi dell’Ucraina e dei partner europei. “L’Europa la vede più come le grandi guerre del secolo scorso. L’America la vede più come la Guerra Fredda. Zelensky ha avuto ragione nello Studio Ovale quando ha detto: ‘Avete un bell’oceano’, ma si è sbagliato con il seguito: ‘Lo sentirete in futuro’”, scrive l’autore.
Secondo Kassam è in atto un cambiamento fondamentale nelle dinamiche di potere globale, con la Cina in svantaggio e una Russia più interessata all’Occidente che all’Oriente. E l’Ucraina “è in realtà troppo piccola per la dottrina Trump-Vance”, un pedone sacrificabile sulla scacchiera del gioco delle grandi potenze (lo stesso di cui aveva accusato l’Europa, poche righe sopra). Con questa mossa l’obiettivo dell’amministrazione Trump è quello di sfruttare “un’imminente opportunità per i russi di vedere gli americani come loro amici e alleati piuttosto che come loro nemici naturali. I neoconservatori, i neoliberali e i globalisti dovrebbero essere soddisfatti, se tenessero fede alle loro dichiarazioni pubbliche sulla promozione della democrazia, l’occidentalizzazione e persino il cambio di regime in Russia. Ma non esultano per gli sforzi di Trump e Vance perché, molto semplicemente, sono sempre stati più interessati alla guerra che alla pace, al conflitto piuttosto che alla risoluzione, e a raccogliere denaro dai loro lobbisti di Arlington, McClean e Chantilly, in Virginia”.
Al netto di toni appositamente sintonizzati sulle onde lunghe della galassia populista, dallo scritto di Kassam emerge chiara la visione che Trump e Vance, e con loro tutti i boiardi del populismo, hanno degli Stati Uniti: un attore autonomo e assoluto, slegato da qualsiasi vincolo morale o impegno basato su principi astratti, che deve perseguire solo e soltanto il suo interesse, senza curarsi di variabili esterne. E in queste variabili esterne, se non fosse chiaro, rientra anche l’Europa.