Nella mente di Trump, i suoi veri piani e le ragioni dei dazi
- Postato il 19 aprile 2025
- Di Panorama
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Chissà se a Winter Park, sobborgo ameno di Orlando solcato dalla «trincea» di Park Avenue – da una parte i resort per gli anziani ricchi che svernano in Florida, dall’altra le casette in legno della servitù senza marciapiedi perché la vita si consuma su quattro ruote – Peppuccia Rallo va ancora allo shopping centre con la sua Ford di terza mano. Comprava cinque litri di succo d’arancia californiano, i corn flakes dell’Arizona, il latte del Montana, gli hamburger del Nebraska. Una spesa autarchica, perché in America c’era tutto quello che serve per campare a prezzi ragionevoli. Oggi tanto arriva dalla Cina e le fabbriche e gli artigiani che producevano a basso valore aggiunto negli States sono fallite. Ammazzate dalla globalizzazione e dall’illusione che un operaio del West Virginia che produceva acciaio a 30 dollari l’ora potesse riciclarsi nel marketing. Oggi, se gli va bene, fa il custode nella catena Walmart – dove Peppuccia fa ancora la spesa – per dieci dollari…
Da questa realtà quotidiana è partita la scalata di Donald Trump alla Casa Bianca, il difensore dell’America profonda. L’uomo che annuncia uno tsunami di dazi, sconvolge le Borse, poi come gli uragani della West Coast si ritrae. Novanta giorni di tregua per tutti tranne che per la Cina (è la situazione al momento in cui va in stampa questo articolo). Il suo vero obiettivo. Anche per far tornare Peppuccia Rallo – tra poco si scoprirà chi è – a comprare solo «americano» e a dare agli operai un futuro. Gli obiettivi del presidente sono chiarissimi e chi si stupisce lo fa per partito preso. Vuole riportare le fabbriche negli Usa, arrivare alla disoccupazione zero, annullare l’enorme debito pubblico federale, e per farlo sa che deve vendere di più sui mercati e comprare di meno. Svalutare il dollaro come leva, minacciare dazi come arma di trattiva per archiviare il mondo globalizzato e tornare alle aree d’influenza, costringendo Pechino a confrontarsi con le vere dinamiche di mercato. Non quelle che ha sconvolto, quando colpevolmente Bill Clinton e l’allora presidente della Commissione europea Romano Prodi le hanno aperto senza condizioni le porte dell’Organizzazione mondiale del commercio.
È anche per questo che Trump ce l’ha con l’Europa: la considera una vecchia signora aristocratica che campa alle spalle dei bifolchi – così J.D. Vance il vicepresidente racconta sé medesimo gli States più profondi – non disdegnando giri di valzer con chiunque. Del resto era quello che pensavano i primi coloni quando mandarono a quel paese Giorgio III e l’Inghilterra. Ma ci sono altri tre obiettivi che il nuovo inquilino della Casa Bianca intende perseguire: sganciarsi dalla difesa del Vecchio continente, comandare nell’Indo-pacifico, ma soprattutto dire all’alta finanza: voi dovete ubbidire alla politica. Forse è questa la più importante posta in gioco: mettere le briglie allo strapotere dei signori della Borsa. La doccia scozzese a cui li ha costretti con l’annuncio e poi la revoca dei dazi è un segnale forte.
Perché per spiegare l’azione di Trump bisogna ricordarsi delle regole fondamentali nel condurre gli affari, che è anche il suo vademecum politico: Think big, Maximize your options, Use your leverage, Fight back, Deliver the goods e Have fun (Pensa in grande, sfrutta al massimo le tue opzioni, usa la tua leva finanziaria, combatti, consegna la merce e alla fine divertiti).
Con queste semplici norme ci si rende conto che in un’apparente follia c’è del metodo. «Pensa in grande» vuol dire ridisegna gli equilibri del mondo; «sfrutta al massimo le tue opzioni» significa usa il potere commerciale del più grande mercato d’importazione; «usa la tua leva finanziaria» corrisponde a deprimi le Borse e fai cadere il dollaro; «combatti» va letto come costringi tutti a trattare; «consegna la merce» va tradotto con togli i dazi; infine «divertiti» è anche quell’espressione grossier «mi baciano tutti il didietro».
Questo è il Trump in campo, anche per Peppuccia Rallo. Lei a Winter Park c’era arrivata da Alcamo: sposata per procura con un parente piccolo costruttore attratto dal miracolo della Florida che alla terza gravidanza è sparito. Faceva la sarta a ore e l’interprete siculo-americana, per questo chi scrive l’ha conosciuta.
Era tra le cento ragazze che accolsero nel gennaio 1983 i giornalisti che la Fiat aveva portato a Orlando per il lancio da Cape Canaveral della Uno: l’auto della resurrezione «inventata» dall’ingegner Vittorio Ghidella. Ne furono vendute nove milioni di esemplari, quasi la metà negli Stati Uniti. Gli Agnelli «via Romiti» lo mandarono via perché voleva fabbricare modelli a basso costo: alla dinastia interessava la finanza come dimostra oggi il nipotino John Elkann, che in Italia ha fatto crollare di un altro 35 per cento la produzione di vetture.
Ecco: l’America di Trump è quella di Peppuccia, a cui il nostro Paese ha venduto la Uno; è una realtà che fatica, crede nel miracolo, che non ne può più di pagare le tasse per difendere il resto del globo. Forse miss Rallo ha nostalgia della pasta con le sarde, ma gli spaghetti Barilla prodotti in New Jersey e l’olio d’oliva californiano con i Golden Jubilee, ottimi pomodori «a stelle a strisce», compensano. A lei non importa dei controdazi europei, della roba cinese può fare a meno, la preoccupa l’inflazione, è in ambasce per il fondo pensione e se manca il sussidio federale. Per quest’America proletaria, il suo presidente è un po’ il «compagno Donald».
Dietro una simile strategia ci sono anche le pagine di due economisti: Martin Feldestein e il suo allievo Stephen Miran. Scriveva il primo: «Immaginare che la moneta unica serva a evitare una nuova guerra intra-europea significa illudersi: c’è più probabilità di ottenere l’effetto opposto e che si arrivi a un aumento dei conflitti tra l’Europa e gli Stati Uniti».
L’Ucraina è lì, il riarmo tedesco incombe, il bazooka economico minacciato da Ursula von der Leyen è carico. Per le vestali dell’euro il pensiero di Feldestein è veleno, per Trump è una profezia. Il «compagno Donald», il socialdemocratico Trump, ha necessità di riportare fabbriche a casa perché le diseguaglianze negli Usa democratici di Joe Biden, di Bill Clinton e di Barack Obama sono diventate insopportabili. Basta scorrere il Pil pro capite. Washington D.C., dove si vive di politica e il «woke» ha imperato, domina 259 mila dollari a testa all’anno; New York, dove non si produce nulla se non finanza, viaggia a 111 mila dollari; in Mississippi appena 51.450 mila dollari, ma vale comunque più di quello della Germania. C’è una parte del Paese che Trump deve e intende tutelare: gli Stati di Illinois, Indiana, Michigan, Minnesota, Ohio, Pennsylvania, Wisconsin dove ieri lavoravano le fabbriche oggi chiuse. È appunto l’America di J.D. Vance – un altro di quelli che ce l’ha fatta – che racconta la rabbia muta degli operai disoccupati. Gli stessi di cui avrebbe bisogno la Boeing, che è in ritardo nelle consegne perché non avendo più meccanici formati negli stabilimenti non sa dove trovarli.
Simmetricamente, Pechino ha un progetto opposto: rendere impermeabile il proprio mercato interno – ne sanno qualcosa i tedeschi con il loro dramma dell’auto – e conquistare il mondo globalizzato con il renminbi. Già, le monete.
La vera guerra sarà sulle valute, non sui prodotti, e si giocherà su uno scacchiere non più globale, ma fatto di aree d’influenza. Non a caso Washington punta ad accordi bilaterali. L’artefice della strategia dei dazi è proprio Stephen Miran, il più brillante degli allievi di Feldestein. Che spiega: «C’è una sopravvalutazione del dollaro di almeno il 25 per cento dovuta al fatto che la nostra moneta è quella ufficiale degli scambi internazionali».
Da qui la polemica di Trump con il capo della Federal Reserve Jerome Powell. Il presidente vuole da parte della sua banca centrale un allentamento dei tassi per deprezzare il dollaro e favorire l’export statunitense. Quando Larry Fink – oltre diecimila miliardi di dollari di patrimonio amministrato con il suo fondo Blackrock – sostiene che il dollaro non sarà più moneta di riferimento pensando ai bitcoin, anticipa ciò che sta cercando di fare Miran. Il quale affida al segretario al Tesoro Scott Bessent il compito di arrivare a un accordo con tutte le banche centrali.
Sarà il «Patto di Mar-a-Lago» per cambiare ruolo al dollaro, convocando Cina, Giappone e Banca centrale europea. Christine Lagarde che guida la Bce è in mezzo al guado: l’euro cresce, ma anche l’inflazione risale e lei deve decidere se stringere i tassi – per il governatore di Bankitalia Fabio Panetta serve cautela sui tagli – o assecondare la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, che spinge gli Stati a indebitarsi per un’espansione militare.
Stefen Miran, da parte sua, guarda a un’America autarchica, la chiamano l’economia del populismo, persuaso che «i dazi indurranno i Paesi terzi a venire a produrre in Usa rivitalizzando la nostra base produttiva. I dazi vanno usati strategicamente come strumento di nego-ziazione». La prova sta negli «stop and go» che imprime Trump. Il debito americano d’altronde tocca i 36.200 miliardi di dollari – il 23,5 per cento dei quali in mano straniera – e il deficit commerciale è a mille miliardi. Analizza Miran: «Il deficit commerciale Usa è il risultato dell’egemonia finanziaria americana sulla quale ha guadagnato il 10 per cento più ricco della nostra popolazione». In economia valgono i vasi comunicanti: se qualcuno guadagna, qualcun’altro ci rimette. E il compagno Donald ha detto «basta».