Nel 2024 la pressione fiscale vola al 42,5%: su di 1,3 punti in un anno, è record dal 2020. I dati Istat e cosa c’è dietro
- Postato il 22 settembre 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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Cattive notizie per il governo Meloni, che ha fatto della riduzione delle tasse un cavallo di battaglia e in vista della legge di Bilancio ha rispolverato lo slogan “tagliamo l’Irpef al ceto medio”. I numeri dell’Istat raccontano che il peso del fisco è salito lo scorso anno ai massimi dai tempi del Covid. Dalla revisione dei conti nazionali annuali per il biennio 2023-2024 emerge che, dopo due anni di calo, la pressione fiscale complessiva è balzata di oltre un punto, dal 41,2% dell’anno prima al 42,5% del Pil: il livello più alto dal 2020. Escludendo l’anno pandemico, che ha visto il prodotto crollare, per trovare un rapporto tra entrate fiscali e contributive e Pil nominale più alto bisogna tornare al 2015, con Matteo Renzi a Palazzo Chigi (42,9%).
La premier in primavera, di fronte alle prime stime che davano il dato addirittura al 42,6%, aveva provato a spiegare la crescita con il boom dell’occupazione: “Se un percettore di reddito di cittadinanza trova lavoro e paga le tasse, la pressione fiscale sale”, aveva detto. Ma i dati la smentiscono. L’Istat calcola infatti che l’aumento delle entrate fiscali e contributive (+5,8%) è stato molto più robusto rispetto alla crescita del Pil a prezzi correnti (+2,7%). In altre parole, il solo effetto occupazione non basta a giustificare il salto. Diversi economisti parlano piuttosto di un ritorno del “drenaggio fiscale”: con l’inflazione alta, gli aumenti nominali delle retribuzioni spingono i lavoratori in scaglioni Irpef più alti, facendo crescere il gettito senza un reale aumento del reddito disponibile. E il fenomeno si fa sentire nelle tasche dei contribuenti anche senza rinnovi del contratto che prevedano un aumento: se lo stipendio non sale o cresce meno dell’inflazione il potere d’acquisto diminuisce, quindi si è oggettivamente più “poveri”, mentre le tasse restano quelle di prima. Secondo Marco Leonardi e Leonzio Rizzo, che ne hanno scritto in più occasioni su lavoce.info, tra il 2022 e il 2024 il cosiddetto fiscal drag è ammontato a ben 25 miliardi a carico di lavoratori dipendenti e pensionati. Un toccasana per le finanze pubbliche, che consente al governo di anticipare il rientro del deficit sotto il 3% scaricando il costo soprattutto sulla classe media.
Una recente analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio ha confermato il quadro e aggiunto un ulteriore tassello indigesto per la maggioranza. Secondo le simulazioni contenute nell’ultimo Rapporto sulla politica di bilancio, con un’inflazione al 2% – lo scenario “normale” per la Bce – quest’anno il drenaggio fiscale ammonterebbe a 3,2 miliardi contro i 2,8 del 2022, perché la riforma Irpef entrata in vigore a gennaio ha amplificato l’impatto dell’inflazione sul prelievo a carico del lavoro dipendente facendo salire l’aliquota marginale effettiva. Gli operai si trovano così a pagare in media 79 euro in più (+5,5%), gli impiegati 141 euro in più a testa. In un precedente rapporto, l’Upb era arrivato alla conclusione sconfortante che il drenaggio fiscale ha più che compensato gli effetti positivi dei tagli Irpef e dei bonus varati nell’ultimo decennio.
Tornando ai dati rivisti dall’Istat, il rapporto tra debito e Pil è stato corretto al ribasso al 134,9% (era 135,3% nella stima di marzo). Il deficit delle amministrazioni pubbliche si è attestato al 3,4% del Pil, in netto miglioramento sul 2023. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti nei giorni scorsi ha confermato che conta in un ripiegamento sotto la soglia del 3% fissata dai Trattati già per fine 2025, con conseguente uscita dalla procedura di infrazione. Il che consentirebbe poi al governo di attivare la clausola del piano ReArm Europe che consente di scorporare dal deficit le spese militari. Il saldo primario è tornato positivo (+0,5% da -3,5%) mentre a crescere è stata la spesa per interessi (+10,1%). L’istituto segnala anche che nel 2024 le uscite totali delle amministrazioni pubbliche sono diminuite del 3,5% rispetto al 2023, fermandosi al 50,4% del Pil. Le uscite correnti, però, sono salite del 4%, spinte dalle prestazioni sociali (+5,1%), dai redditi da lavoro dipendente (+4,8%) e, soprattutto, dagli interessi sul debito (+10,1%). Le uscite in conto capitale hanno subito un crollo (-40%), legato al venir meno Superbonus e Bonus facciate, solo in parte compensato dall’aumento degli investimenti pubblici (+16,3%) per effetto probabilmente dei progetti del Pnrr.
Quanto alla crescita, l’Istat conferma la stima di +0,7% in volume per il 2024. Alla dinamica hanno contribuito la domanda interna al netto delle scorte (+0,6 punti) e quella estera netta (+0,1). Dal lato dell’offerta, il valore aggiunto è salito in agricoltura (+2%), costruzioni (+1,1%) e servizi (+0,8%), restando invece fermo nell’industria in senso stretto. “Con Meloni e il falco Giorgetti abbiamo un Pil che inchioda l’Italia dietro a Ue +1%, Eurozona +0,9%, la tanto vituperata Francia +1,2%, Spagna +3,2%, Portogallo +1,9%, Grecia +2,3%, Belgio +1%, Olanda +1,1%”, commentano i parlamentari M5s delle commissioni Bilancio e Finanze di Camera e Senato.
La stima sul pil 2023 è invece stata rivista al rialzo da +0,7 a +1%, per il giubilo del Mef. C’è stata un modifica dei tassi di crescita delle componenti: i consumi delle famiglie hanno registrato un aumento allo 0,5% dallo 0,3% dell’edizione precedente e i consumi delle amministrazioni pubbliche all’1,1% (da +0,6% nella versione precedente). Il tasso di crescita degli investimenti è stato sopra la stima di marzo: +10,1% invece che +9%. Ma si parla appunto del 2023, quando le costruzioni erano ancora spinte dai lavori legati ai bonus edilizi e la domanda di beni strumentali elevata grazie agli incentivi legati a Transizione 4.0.
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