Nazzi: “La condanna di Stasi non mi convince al 100%. Ho letto delle cose sui social veramente indecenti sulla famiglia Poggi e sulla stessa Chiara”. Esce in libreria “L’enigma di Garlasco”

  • Postato il 30 luglio 2025
  • Crime
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Sono passati quasi vent’anni dai fatti di Garlasco, nel pavese, ma il caso dell’omicidio della ventiseienne Chiara Poggi, avvenuto nella villetta di famiglia, quel 13 agosto 2007, è ancora aperto. La Procura di Pavia ha, infatti, un nuovo indagato: Andrea Sempio. E Alberto Stasi? L’ex fidanzato della vittima è in carcere, condannato nel 2015 a sedici anni di carcere per omicidio volontario. In questo scenario denso di interrogativi, in cui mancano ancora l’arma del delitto, testimoni in grado di confermare quanto accaduto, un movente chiaro e definito e tracce di Dna mai analizzate prima, e che ci consegnano un altro profilo biologico, è in uscita, il 30 luglio, per Aliberti, “L’enigma di Garlasco. Anatomia di un delitto” di Flaminia Bolzan.

Bolzan, psicologa e criminologa, in questo libro ripercorre le tappe giudiziarie e mediatiche di uno dei processi indiziari più controversi degli ultimi anni, portandoci sul luogo del delitto, nei meandri delle indagini tradizionali e di quelle nuove, che si avvalgono di tecnologie avanzate. Ma soprattutto ci esorta a interrogarci: “Cosa spinge una persona a commettere un crimine? Come si svolge un’indagine? Quanto diverge l’aspetto processuale da quello mediatico? Sono domande che rimbalzano tra le pagine di questo volume, invitandoci a esplorare le profondità dell’animo umano e la complessità del sistema giustizia”, scrive il giornalista Massimo Giletti, che ha firmato la prefazione al volume. Nel libro sono contenute anche interviste ai giornalisti Stefano Nazzi, Gianluca Zanella e Antonino Monteleone, a Chiara Penna, avvocato penalista e criminologa, a Marina Baldi, biologa, specialista in genetica medica e forense, e ad Alfredo Robledo, ex magistrato e procuratore aggiunto di Milano.

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INTERVISTA A STEFANO NAZZI – Giornalista, autore e conduttore del podcast Indagini

Nazzi, il suo podcast, Indagini, è il più seguito in Italia e cattura l’attenzione di migliaia di ascoltatori. Nel 2022, quando è nato, ha scelto proprio il caso di Garlasco per iniziare. Come mai?
Scelsi Garlasco per la prima puntata proprio perché conteneva tutti quegli elementi fondamentali per un podcast come Indagini. Innanzitutto, l’uso delle analisi scientifiche mi consentì di raccontare un passaggio epocale, dalle indagini di tipo tradizionale a quelle prettamente scientifiche. Un cambiamento che era iniziato prima di Garlasco. Era l’occasione per spiegare come venivano svolte le indagini, come diedero risultati diversi, nel tempo, nelle sue varie fasi dell’inchiesta e dei processi. Altro elemento fondamentale era spiegare l’iter processuale, cioè le prime due assoluzioni e la condanna nel processo d’appello bis. E poi c’erano altri elementi che rendevano la storia di Garlasco emblematica. La pressione dei media, la presenza di personaggi che lo resero uno show, come l’arrivo di Fabrizio Corona nel paesino, di altri agenti dello spettacolo; il tentativo delle gemelle Cappa di farsi notare. Mi ricordo, addirittura, di un mago che disse che Chiara Poggi telefonava sempre alla sua trasmissione. Non era vero, ovviamente, però fece perdere tempo e spostò l’attenzione dalle indagini. L’utilizzo di una sorta di profiling, che secondo me fu molto superficiale e fatto in trasmissioni televisive da persone che spesso non avevano la competenza. Come se bastasse una reazione fredda di fronte a un evento per individuare un elemento di colpevolezza. Insomma, in quella storia c’erano tutti gli elementi per renderla emblematica. E ancor di più ce ne sono oggi.

Cosa l’ha colpita, positivamente e negativamente, per la sua esperienza e conoscenza ormai ampissima delle metodologie di indagine, in questo caso?
Mi colpì positivamente la capacità di certe strutture delle forze dell’ordine di riuscire ad analizzare gli elementi a disposizione. Per esempio, la ricostruzione della camminata di Alberto Stasi e, quindi, tutte le metodologie utilizzate, anche complesse. Mi colpì negativamente il fatto che tutte queste analisi scientifiche diedero risultati controversi nel corso del tempo. Oltre al fatto che all’inizio ci furono degli errori marchiani di cui parlano le stesse sentenze, di cui parla l’attuale comandante del ris di Parma. Non è pensabile che agenti delle forze dell’ordine entrino su una scena del crimine senza sovrascarpe, senza guanti, che smanettino sul computer prima che venga fatta la copia forense. Insomma, furono fatte cose che non è possibile giustificare con l’inesperienza. Certo, ci fu inesperienza, ma non furono neanche usate razionalità e logica. E quando le indagini partono in questo modo, con degli elementi critici all’inizio, proprio su quelle che poi saranno le basi su cui si reggeranno tutte le analisi scientifiche, be’, tutto diventa molto più difficile e sicuramente molto più controverso e meno tranquillizzante.

Quali sono state, a suo avviso, le anomalie nella conduzione delle indagini, se ne ha riscontrate?
Ripeto, non ci furono le attenzioni necessarie sulla scena del crimine. Attenzioni che sono adesso fissate da protocolli molto rigidi, ed errori di quel tipo, come vennero fatti allora, non penso siano ripetibili. Abbiamo già detto della mancanza di sovrascarpe, dello smanettamento sul computer, ma anche del fatto che, per esempio, non vennero prese le impronte digitali della vittima e fu poi necessario smurare e diciamo prenderle in una fase successiva, queste impronte digitali. La stessa ora della morte: noi sappiamo che – e ce lo spiegano gli stessi scienziati – non è mai possibile stabilire con esattezza l’ora e il minuto preciso in un caso di questo genere. Però ci furono molte variazioni sull’ora della morte. Poi, la bicicletta sequestrata solo sette anni dopo e lasciata nella disponibilità della famiglia di Alberto Stasi. E ancora, lo scopriamo adesso, non lo sapevamo, tanti elementi che non furono addirittura repertati, o non analizzati, e che avrebbero potuto, e sottolineo avrebbero potuto (c’è molto condizionale in questa frase), dare delle indicazioni. L’impressione è che sia stata seguita un’unica pista che, magari, probabilmente, è stata poi considerata quella valida almeno sul piano giudiziario. Furono escluse altre possibilità che avrebbero potuto portare altrove. Ripeto, avrebbero potuto: non c’è nessuna certezza, ovviamente, in tutto questo.

Il clamore mediatico, dal suo punto di vista, può in un certo qual modo influenzare il processo investigativo? Ed eventualmente in che modo?
Sì, il clamore mediatico influenza. È inutile essere ingenui e pensare che non sia così. Il clamore mediatico influenza, e questo credo sia oramai un dato di fatto. È come se, tra l’altro, i processi iniziassero molto prima del dibattimento, negli studi televisivi e sui social. Noi parliamo di clamore mediatico, ma c’è anche il clamore dei social che adesso è molto pressante. Questa cosa l’ha riconosciuta la stessa giustizia. Mi ricordo, a proposito della sentenza della Corte di cassazione sul processo Meredith Kercher, che la stessa Corte parlò di inusitata pressione mediatica che portò ad accelerazioni nelle indagini e quindi a defiance investigative. Purtroppo è così, perché i tempi televisivi, i tempi giornalistici, i tempi mediatici, non sono quelli delle indagini, che hanno bisogno di calma, riflessione, attenzione. Spesso questa pressione porta, appunto, ad accelerazioni, forse per il timore di sembrare fermi, di far apparire che non si vada da nessuna parte. E, comunque, la pressione mediatica rischia di creare confusione, di creare anche quella che possiamo definire giustizia attesa. Cioè gli spettatori, i lettori, i frequentatori social si aspettano che le cose vadano in un certo modo, perché quell’idea si sono fatti seguendo quotidianamente certe informazioni. E poi, invece, la giustizia e le stesse indagini vanno da altre parti, perché giustamente seguono le cose concrete. Insomma, quindi, oggi l’attenzione dei media conta nelle indagini. Eccome.

Secondo lei quanto è importante avvicinare le persone alla comprensione di un fenomeno, come è il delitto, attraverso l’aiuto degli esperti? E subito dopo le chiedo, non crede che alcune materie, come ad esempio la genetica forense e la dattiloscopia, presentino delle difficoltà e delle tecnicità troppo elevate per poter essere comprese agilmente da tutti solo attraverso un intervento breve di quelli che magari ascoltiamo in tv?
Questo è un aspetto secondo me fondamentale. Spesso il racconto di come avvengono analisi scientifiche, ma ci metto anche, per esempio, le perizie psichiatriche, il lavoro degli psicologi forensi, nel mondo giornalistico, mediatico, avviene molto, molto superficialmente. E questo crea anche delle visioni non di parte, ma in ogni caso orientate da parte dell’opinione pubblica. Sarebbe importantissimo riuscire a spiegare come avvengono le analisi scientifiche, come avviene una perizia psichiatrica. Avere una patologia non vuol dire essere incapace di intendere e di volere, incapacità di intendere e di volere sono questioni distinte, anche se collegate. E come avviene, per esempio, con la Bloodstain Pattern Analysis, quando un reperto può essere considerato valido e quando no. Sarebbe secondo me interessantissimo riuscire a spiegarlo, farlo spiegare da persone competenti in quel settore, perché spesso non lo sono neanche gli avvocati. Spesso sono temi, argomenti difficilissimi.

Tornando al processo Meredith Kercher, io mi ricordo che, a un certo punto, la discussione tra i vari periti era a livelli così alti, così tecnici, che era impossibile, per chi non era del campo, capirci qualcosa. Se non capisci – tu giornalista poi – quello che riporti, tutto diventa incomprensibile o rischia di essere inesatto. Poi, mi rendo conto che i tempi televisivi dell’informazione, ancora una volta, sono diversi da quelli che servono in realtà per fare un’analisi scientifica, per poter portare a termine il profilo di un indagato, per poter fare una perizia psichiatrica.

Però, ecco, la cosa importante sarebbe che i miei colleghi delle trasmissioni televisive, soprattutto, invitassero persone realmente competenti e non esclusivamente personaggi televisivi. Ci sono tantissime persone competenti da poter interpellare, mentre ci si rivolge spesso a chi ha una notorietà televisiva semplicemente perché è più comodo, perché appunto è conosciuto. Comunque, proprio perché le analisi sono diventate prettamente scientifiche, e non c’è indagine che prescinda spesso da perizie da parte di psicologi forensi, di psichiatri, di esperti, sarebbe molto interessante riuscire a spiegarle in maniera seria, magari togliendo un po’ di spazio e tempo ad altre questioni che vengono affrontate. Invece, si parla di casi che sono semplicemente fuorvianti, che portano altrove e non hanno grande rilevanza.

Il delitto di Garlasco vede finora un unico e definitivo colpevole, che è Alberto Stasi, questa condanna la convince al cento per cento?
No, questa condanna non mi convince al cento per cento. Non tanto perché voglio entrare nello specifico degli elementi che poi portarono a una condanna, ma perché ci sono state due assoluzioni, in primo e secondo grado, poi la Cassazione fece ripetere il processo e si arrivò a una condanna nel processo d’appello bis e poi a una condanna definitiva in Cassazione. Un andamento processuale così altalenante, lungo, lascia negli osservatori, ma anche nell’opinione pubblica, un senso di indecisione, di incompletezza, di dubbio, perché gli stessi elementi furono valutati in maniera diversa da giudici diversi. Questo deve farci riflettere. Non entro nel merito di colpevolezza o innocenza, però questo andamento processuale ha lasciato molti dubbi e lo dimostra anche quello che sta succedendo in questi giorni. La domanda che ci si pone è: il ragionevole dubbio è stato superato, è stato eliminato dall’orizzonte di questa storia, o invece quel ragionevole dubbio c’era? E allora, al di là di una mia valutazione di colpevolezza e innocenza, in quei casi non si deve arrivare a un’assoluzione?

Che idea si è fatto rispetto alla nuova indagine che coinvolge Andrea Sempio?
L’idea che mi sono fatto è che è evidente, e questo è uno dei pochi punti certi di questa storia in questo momento, che alcuni elementi non furono valutati. Furono, diciamo, superficialmente espletati o archiviati senza probabilmente i necessari approfondimenti che avrebbero aiutato a eliminare tutti quei dubbi intorno a questa vicenda. Se c’è la possibilità di un innocente condannato, è giusto aprire un nuovo filone di indagine per capire se ci sono elementi che portino altrove. Questo non vuol dire che si arriverà da qualche parte, perché sappiamo benissimo che dopo diciotto anni i reperti saranno quello che sono, daranno risposte probabilmente non certe e che poi ci sarà sicuramente una battaglia profonda tra la difesa e i pubblici ministeri sull’utilizzo di quei reperti, di quegli elementi. E, quindi, sarà molto difficile anche per chi indaga e per chi ha a che fare professionalmente con questa vicenda. Quando c’è un dubbio vale sempre la pena andare avanti con le indagini per cercare di eliminarlo. Certo, andava fatto prima. Ecco, questo, farlo a diciotto anni dall’omicidio di Chiara Poggi è piuttosto sorprendente.

Ritiene giusto che ci si affidi, ancora una volta, in via preponderante, all’investigazione scientifica?
Non lo ritengo giusto. Penso che sia inevitabile. Non vedo quale altra possibilità ci sia di venire a capo di questa vicenda, se non attraverso le indagini scientifiche, che saranno molto difficili, perché le domande sono legittime: sono ancora utilizzabili quei reperti, quelle tracce? Quanto sono deteriorate? Perché, in mancanza di testimoni, non vedo altro modo per riuscire a dare delle risposte, a meno che non vogliamo considerare tutto quello che è stato creato attorno con testimoni definiti super, che prima di andare in Procura vanno in televisione. Testimoni rilevanti che, poi, scopriamo quanta poca rilevanza possano avere in tribunale. Voci di corridoio, voci di paese. Insomma, sono fondamentali le analisi scientifiche, sono le uniche che possano dare risultati e risposte.

Crede si stia perdendo un po’ la capacità di condurre una “buona” indagine tradizionale? O che possa avere solo un valore di contorno?
Questo è un rischio. La scienza che ha fatto passi da gigante, può creare una sorta di alibi, come dire: “tanto c’è l’analisi scientifica” e si perde la formazione, l’energia di affidarsi anche a indagini tradizionali, che sono fondamentali. Sono gli stessi scienziati ad affermare che non esiste una risposta al cento per cento nelle analisi scientifiche. Di sicuro, danno probabilità altissime, ma le variabili sono molteplici e lo sappiamo. Per fare qualche esempio, quando un reperto può essere utilizzato, quando no, quanto è attendibile quel risultato, se ci sono contaminazioni o meno; quando si parla di possibilità di contaminazione invece di contaminazione certa. Accompagnare l’indagine scientifica a un’indagine tradizionale fatta di testimonianze, di ricostruzione logica dei fatti, di ricostruzione dei movimenti e della personalità di un individuo è fondamentale, e il rischio è che questa attitudine si perda.

Nel 2007 ritiene siano state adeguatamente valutate ipotesi alternative rispetto alla “pista” che ha portato gli inquirenti a convincersi della colpevolezza di Stasi?
Ritengo che all’epoca dei fatti si sarebbe dovuto approfondire con maggiore attenzione quanto emerso dalle indagini difensive – non dimentichiamolo, perché tutto parte da input della difesa di Alberto Stasi.

Se dovesse “ri-raccontare” questa indagine, quale sarebbe, secondo lei, il punto di maggiore salienza rispetto alle informazioni di cui disponiamo e per quale motivo?
Se dovessi raccontarla di nuovo, questa storia, ripartirei esattamente da come ero partito nel primo racconto di Garlasco, cioè dalle mancanze. Partirei proprio da ciò che forse doveva essere fatto e non è stato fatto. Dall’analisi, per esempio, del contenuto di questi oggetti, che potevano dare delle risposte. Dal vasetto dello yogurt, piuttosto che dai cereali. Perché non è stato fatto, perché non furono analizzati? Ripeto, non è detto che dessero risultati, ma dovevano essere analizzati e quindi ripartirei da quelle cose più che dalla figura di Andrea Sempio, che non è possibile in questo momento, secondo me, inquadrare in qualche modo. Inoltre, sarebbe molto interessante capire cosa sia successo all’interno della Procura di Pavia, per cui a un certo punto si è deciso di riprendere in mano le indagini. Come si è arrivati a quel punto?

Cosa si aspetta nei termini di una possibile evoluzione del caso da qui a qualche mese?
È molto difficile, da quello che vedo, ad anni di distanza, riuscire a trarre conclusioni certe da analisi scientifiche. Ci si è riusciti, per esempio, nel caso del delitto dell’Olgiata di Alberica Filo della Torre, perché lì c’era un nastro, una registrazione telefonica, che non era mai stata ascoltata, o meglio, non era mai stata tradotta. In pratica c’era la confessione di una persona di origine filippina, che aveva lavorato in quella casa, che era stata intercettata e voleva vendere i gioielli rubati in quella casa il giorno dell’omicidio. Quindi, la soluzione era lì, era davanti a tutti, ma nessuno aveva mai tradotto quella telefonata tra due cittadini di origine filippina. Però, in questo caso, è molto difficile trarre conclusioni certe da reperti così datati. Anche perché le difese hanno gioco facile e ragione di sollevare dubbi sulla contaminazione, o sull’integrità del materiale che non si presenta in ottime condizioni.

Come interpreta la posizione della famiglia Poggi rispetto al modo in cui hanno “accolto” l’indagine nuova su Andrea Sempio?
È una famiglia che è ripiombata in una situazione da cui, comunque, non uscirà mai. Hanno vissuto una tragedia immensa, neanche immaginabile. Impari a conviverci con questa cosa, e poi, improvvisamente, diciotto anni dopo, ti ricatapultano in una situazione del genere, spesso senza nessuna delicatezza e attenzione. E, quindi, questo porta a una reazione psicologica del tutto normale. Cioè chiedono di smetterla, di lasciarli in pace. Sono gli unici che possono dire veramente quello che vogliono.

Ritiene che l’approfondimento di alcuni aspetti della vita di Chiara possa essere lesivo e inconsistente o, al contrario, potrebbe aiutare a comprendere se c’è o meno la possibilità di vagliare piste alternative?
Sì, credo che siano state fatte delle cose pessime. Ho letto delle cose sui social veramente indecenti, sulla famiglia Poggi e sulla stessa Chiara. Vivisezionare le sue mail, delle parole fuori contesto, non sapendo che tipo di linguaggio usasse lei normalmente, che forse non è il linguaggio a cui noi siamo abituati oggi, ma quello di una ragazza nel 2007 che magari usava la parola “intrallazzi” in un certo senso e non in un altro. Tutto per alludere che lei avesse una vita segreta. Qualcuno, non si sa bene come, ha detto: “Ma l’ho vista con due telefoni”. Ma anche se fosse, a parte che mi sembra una cosa senza nessuna base di riscontro, cosa vuol dire? Parlare di vita segreta è veramente irrispettoso e anche stupido, anche perché in questo caso, sì, le indagini avrebbero scoperto delle cose, e lo avrebbero scoperto da tempo. Ma poi di cosa parliamo quando diciamo “vita segreta”, che lei aveva una simpatia per qualcun altro? Può darsi, ma anche questo che significato ha? Di certo non era una persona che si muoveva in segreto, che aveva una doppia vita. Perché si sarebbe semplicemente saputo nel corso delle indagini che furono fatte e in questo caso, sentendo tutti i testimoni, sentendo amici, sentendo colleghi, sentendo addirittura le persone che la incontravano sul pullman quando si recava a Milano… Insomma, credo che sia veramente irrispettoso continuare a tirare in ballo questo aspetto.

Nel ringraziarla per aver risposto a queste domande, le pongo l’ultima, più personale probabilmente, dopo diciotto anni: cosa le “lascia” emotivamente questo caso? Che tipo di riflessione genera nell’uomo e nel giornalista?
Credo che lasci quello che lascia a tutti: un senso di sorpresa e smarrimento, perché non c’è niente da fare, situazioni come queste ti lasciano molti dubbi sull’andamento, in alcuni casi, delle indagini, dei processi. Provo sgomento a pensare che venga ipotizzato che una persona innocente sia in carcere da dieci anni. Poi, mi lascia un po’ triste anche questo meccanismo in cui cadiamo sempre noi giornalisti, di ricamare intorno a ipotesi anche precise e semplici. Perché credo che l’indagine dei pubblici ministeri sia molto lineare, cioè basata sul riscontro effettivo dell’alibi e sulla sua possibile presenza in quella casa di Andrea Sempio. Perché certe cose, secondo i pubblici ministeri, non tornano. Tante cose che sono state dette e raccontate, a cominciare proprio dalla possibile doppia vita di Chiara Poggi, fino al santuario, passando dai sicari. Come si può pensare a un sicario che agisce in bicicletta alle nove e mezza del mattino con un’arma improvvisata. Insomma, provo due sensazioni: innanzitutto di angoscia, per il fatto che si sia arrivati solo adesso a percorrere delle piste alternative, e anche un po’ di tristezza e rassegnazione nel vedere che certi meccanismi di narrazione e di racconto rimangano sempre gli stessi.

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