"Mussolini una macchietta, Matteotti un invasato". Marinelli flop, tutti gli stereotipi di M
- Postato il 18 gennaio 2025
- Di Libero Quotidiano
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"Mussolini una macchietta, Matteotti un invasato". Marinelli flop, tutti gli stereotipi di M
La recensione alla seconda messa in onda di M. l'ha fatta clamorosamente lo stesso Benito Mussolini attraverso Luca Marinelli che l'impersona: «È tutta una finzione. Ma per essere credibile ha bisogno di una certa dose di realtà». Ecco, basta rimanere su questo binario, e allora la serie tv di Sky diventa quasi potabile. Quasi, appunto, ovvero con i suoi difetti d'impostazione e di sviluppo che si porterà dietro verosimilmente fino all'ultima puntata della trasposizione del primo volume del romanzo di Antonio Scurati. Non è una biografia di Mussolini e non è una storia del fascismo, e neppure una storia italiana spalmata sul Ventennio, perché gli italiani o non ci sono oppure vengono tirati fuori dal mazzo delle figurine Liebig disegnate da Angelo Bioletto, con Mussolini come il Feroce Saladino ma niente affatto raro.
Data per insopportabile la cadenza romagnola affibbiata al giornalista di Predappio, ecco subito l'anticipazione dell'Istituto Luce con Benito a cavallo e schermidore, che vedremo probabilmente pure in futuro prendendo a modello i cinegiornali che lo mostravano ballerino disinvolto, calciatore legnoso, tennista semiparalitico, nuotatore indefesso e pure aviatore, tanto che quando impugnava la cloche faceva diventare Adolf Hitler verde di paura, unico caso conclamato della storia. Intanto passano sullo schermo il «ciao ciao» a Giovanni Giolitti e l'irrisione in aula parlamentare al primo ministro Ivanoe Bonomi e poi a Luigi Facta che Gabriele d'Annunzio ha marchiato per sempre come Cagoia. Terza e quarta puntata di M. sono dedicate all'ascesa politica e al crescendo della violenza fascista che l'accompagna e la supporta, mostrata con compiacimento unilaterale perché senza alcun riferimento alla situazione italiana dell'epoca.
Mussolini è il capomuta di quelli che definisce «cani rabbiosi», li tiene al guinzaglio e li lancia contro gli avversari politici, armati di manganello, olio di ricino e stoccafisso, e lui per accentuare ha gli occhi truccati di nero come un panda di provincia per esaltare lo sguardo indirizzato verso la strabusata quarta parete, cifra narrativa del regista Joe Wright come le tinte scure, le ombre e le camicie nere, e anche qualche stereotipo da commedia all'italiana in salsa inglese. Come la grossa combriccola di squadristi armati messi in fuga precipitosa da appena otto carabinieri che senza neanche attendere gli ordini dal maresciallo si inginocchiano all'unisono e aprono il fuoco con i moschetti ad altezza d'uomo. Mussolini dice di sé che è uno stratega e appiccica sbrigative etichette a Dino Grandi, Roberto Farinacci e Italo Balbo; soprattutto quest'ultimo è talmente fuori le righe da risultare improbabile. Un altro luogo comune, peraltro ampiamente e documentalmente smentito da ultimo da Giordano Bruno Guerri, è che «il fascismo non è nato con Mussolini: il vero padre è d'Annunzio».
Il fascismo, come un tenace opportunista e parassita della storia si appropriò delle liturgie dannunziane, belliche e a Fiume, e le fece proprie banalizzandole, come quell'«eja eja alalà» che nella fiction risuona quasi come un «trullalà» di bambinoni troppo cresciuti o non cresciuti affatto ma che si credono superuomini a imitazione del Vate. A casa a Milano, intanto, Rachele (alias Benedetta Cimatti), disegnata come una specie di strega Nocciola disneyana, russa a letto come un orso marsicano, sfodera la pistola, cammina a piedi scalzi come sull'aia in campagna, inciampa nell'italiano, ma questo non impedisce a Mussolini di parlare a lei come di «first lady» aggiungendo un tono comico al momento topico dell'incarico di formare il governo. E che dire di Giacomo Matteotti? Rappresentato come un autentico invasato, un transfer di Mussolini, ma che parla in italiano (non in rodigiano) e che ha i capelli, ma con lo stesso tono messianico. È il periodo in cui il direttore del Popolo d'Italia indossa le ghette bianche e le porterà pure quando riceverà da Vittorio Emanuele III l'incarico di dare un governo all'Italia: «Alea Facta est».
Il sovrano non firma lo stato d'assedio che gli propone il presidente in carica- esponente del Partito liberale che nella fiction gli si rivolge con «Sua Maestà» invece che con il corretto «Vostra Maestà» -, ma il decreto di nomina sotto la pressione delle colonne armate mussoliniane. «Roma! Roma!» urlano i fascisti in marcia sulla Capitale sotto la pioggia, e nella versione filmica sembra un coro da stadio. Piove, governo ladro, e tra poco sarà spazzato via. Mussolini, che ha mosso le bandierine delle squadre di camicie nere come se stesse giocando a Risiko, davanti ai triumviri cui ha concesso a Napoli di coordinare uno scaciolato atto di forza, si è mosso solo in un secondo tempo, ma da Milano. Nella serie di bluff e del gioco al rialzo del suo modo di intendere la politica e la conquista del potere, gli va bene. Il Re cede, ma non è lo gnomo impaurito che nella fiction piagnucola e adombra pure l'intenzione di abdicare, in realtà suo unico timore che ne condiziona la lucidità e le scelte, mentre il figlio Umberto è dipinto di sfuggita come un bamboccione che gioca a palla quando in gioco ci sono i destini del regno.
Piove, a Roma e a Milano, sui fez degli squadristi e sugli elmetti dei soldati del Regio Esercito che rimangono con i fucili a piedarm e i tappi sulle bocche delle mitragliatrici. Mussolini, che aveva esclamato fiero che «un popolo che usa l'ombrello non può fare la rivoluzione» (e arriverà a proibirlo ai fascisti) va incontro ai militari che presidiano la sede del Popolo d'Italia con passo littorio ma con un ridicolo cilindro in testa, come non bastassero le ghette bianche. Insomma il taglio della trasposizione del libro di Scurati è questo, tra critiche fondate e cori agiografici. Non ci si può attendere nulla di più e niente di meno. Si poteva trasformare la vicenda in storia o in una trama avvincente e credibile, a partire dai personaggi, ma ancora una volta sono la noia e le caricature a fare da filo conduttore a «M.». Prendere o lasciare. Nei titoli di coda non compaiono, perché non accreditati, Ornella Vanoni che doppia Barbara Chichiarelli, nei panni di Margherita Sarfatti maliarda intemerata, e Maurizio Crozza che imita Matteo Renzi per dare voce a un Cesare Rossi a dir poco ridicolo. Ovviamente non sono loro, ma lo sembrano.
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