Missione Caucaso per il pacificatore Trump. Ma Armenia e Azerbaigian sono distanti
- Postato il 8 agosto 2025
- Esteri
- Di Formiche
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Nel tentativo di consolidare l’immagine di “uomo di pace” che lo accompagnerà nella storia, magari anche attraverso un Premio Nobel, Donald Trump punta adesso a risolvere la disputa trentennale tra Armenia e Azerbaigian. La strada verso un accordo stabile nel Caucaso, però, resta irta di ostacoli — tanto sul piano politico quanto, letteralmente, su quello geografico.
Oggi il presidente statunitense dovrebbe annunciare un’intesa per porre fine al conflitto, dopo gli incontri con il leader azero, Ilham Aliyev e il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan. Resta da capire se si tratterà di un gesto mediatico o di un passo concreto verso la stabilità di una regione in cui pesano primariamente le influenze di Russia, Iran e Turchia, e che da anni vive sotto la minaccia di nuove fiammate di violenza.
Secondo Reuters, Washington avrebbe già sbloccato uno dei nodi più controversi: i diritti di sviluppo delle infrastrutture di trasporto nel Corridoio di Zangezur, una stretta fascia montuosa di territorio armeno che separa l’Azerbaigian dall’enclave di Nakhichevan. Baku vede quel corridoio, al confine tra Armenia e Iran, come la via per collegare l’exclave al resto del Paese. Finora, però, i due Stati non erano riusciti a trovare una soluzione che garantisse sia il collegamento richiesto da Baku, sia la piena sovranità armena sulla zona.
Il dossier Zangezur non è l’unico banco di prova per Trump e per il suo super inviato Steve Witkoff, che sta guidando questi e tutti i negoziati di pace e stabilità su cui Washington si è lanciato. Rimane aperta la questione dell’eventuale ripristino degli aiuti militari statunitensi all’Azerbaigian, sospesi dall’amministrazione Biden quando Baku si era avvicinata a Mosca e Aliyev aveva ventilato nuove operazioni militari contro l’Armenia. Da ricordare che in passato, il sostegno americano aveva raggiunto i 100 milioni di dollari in equipaggiamenti e finanziamenti.
Oggi l’Azerbaigian non avrebbe bisogno sul piano pratico di quel sostegno, forte della collaborazione militare con Israele. Ma un parziale ripristino degli aiuti avrebbe un significato politico, e potrebbe comunque rappresentare “la ciliegina sulla torta” per rendere più appetibile l’accordo a Baku.
Sarà inoltre difficile chiudere un’intesa senza che Trump offra a Pashinyan una copertura politica per modificare la Costituzione armena, eliminando ogni riferimento a un controllo su Nagorno-Karabakh. “Trump deve essere percepito in Armenia come una forza politica irresistibile”, osserva Matthew Bryza, ex ambasciatore Usa a Baku e già negoziatore sul conflitto.
Resta infine aperto il capitolo più delicato: la gestione delle conseguenze delle ultime guerre. Non è previsto, almeno per ora, che l’accordo affronti lo status dei circa 120.000 armeni sfollati dalle operazioni militari azere del settembre 2023, la liberazione dei prigionieri di guerra armeni o la tutela dei siti culturali armeni in Nagorno-Karabakh.
Se però la Casa Bianca riuscisse a portare a casa un’intesa, sarebbe un passo storico verso l’integrazione di una regione strategica, cerniera tra Europa e Medio Oriente, rimasta ostaggio di conflitti etnici per decenni e dí speculazioni esterne su questi (fatte con l’obiettivo di aumentare l’influenza regionale e locale). Tutto, chiaramente, consoliderebbe la presenza statunitense nel Caucaso — regione cruciale per la Belt & Road cinese e sempre più sotto le attenzioni internazionali per rotte commerciali e materie prime.
Come ricorda Mike Carpenter, ex ambasciatore Usa presso l’Osce e già direttore per l’Europa nel Consiglio di Sicurezza Nazionale sotto l’amministrazione Biden, “l’accordo rafforzerebbe indubbiamente il peso degli Stati Uniti. Ma, soprattutto, ridurrebbe il ruolo di attori esterni che in questa regione, e non solo, esercitano un’influenza destabilizzante, in primo luogo Iran e Russia”.