“Mi sento in colpa per chi è cresciuto con i miei video. In direct si liberano dei pesi con me e io me ne faccio carico”: Awed a teatro con “Esperienze D.M.”
- Postato il 8 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Rompere la quarta parete e rendere il pubblico protagonista, commentando con ironia le storie più strane e intime senza lieto fine. È “Esperienze D.M.”, lo spettacolo di Awed, Riccardo Dose e Dadda, tre celebri volti di Internet che hanno trasportato a teatro un format nato sul Web. Portano sul palco i racconti che gli utenti confidano loro su Instagram oppure sono gli stessi spettatori a descrivere episodi personali, in uno show comico in cui a comandare sono l’imprevedibilità e il tono tagliente.
“Abbiamo un pubblico trasversale, andiamo dal ragazzino di 13 anni alla signora di 60. Ma anche trentenni e quarantenni e coppie di 20-25 anni. L’anno scorso c’è stata persino una proposta di matrimonio – spiega Awed (vero nome Simone Paciello) a FqMagazine –. E poi io e Riccardo facciamo video su YouTube da 14 anni, quindi c’è anche tutta una generazione di ragazzi che è cresciuta con noi”. Dopo il successo delle prime due stagioni, “Esperienze D.M.” riparte il 9 ottobre, dal teatro Brancaccio di Roma e toccherà diverse città italiane.
Com’è nata l’idea dello spettacolo?
Molto spesso la notte, quando non riuscivo a dormire, sentivo in radio interventi di persone che chiamavano e raccontavano le loro vicende. Tutto è cominciato sul mio canale YouTube: mi divertiva l’idea di creare un’ interazione con il pubblico da casa e pubblicavo un appuntamento al mese. Tre anni fa ho pensato che l’unico tema che molti fossero disposti ad ascoltare per più di un’ora poteva riguardare le esperienze un po’ più intime andate male. Sono anche un po’ le chiacchiere che si fanno con gli amici. L’idea di portare il format a teatro è nata per gioco, ne abbiamo affittato uno con 400-500 posti a Milano come prova e con nostra grande sorpresa i biglietti sono finiti in due ore. Una volta saliti sul palco, non volevamo scendere più.
Come avete adattato il format web al teatro?
A teatro l’aspetto più rilevante è l’imprevedibilità del pubblico. Chi è presente in sala è parte integrante dello spettacolo, non siamo più io, Riccardo e Dadda in una camera. Mettiamo in scena le storie che la gente ci invia, le persone stesse interpretano personaggi della vicenda e devono essere pronte a improvvisare sul palco insieme a noi. L’improvvisazione fa sì che lo show possa andare ogni sera in qualsiasi direzione. Con la terza stagione vogliamo volgere lo sguardo a esperienze disastrose in generale, senza relegare tutto al solo concetto di intimità.
Esiste una ricetta per il successo di “Esperienze D.M.”?
Credo che sia diverso dagli altri show. Spesso mi chiedo se sia giusto dissacrare i teatri con questo format, ma gli addetti ai lavori mi dicono che, in Italia, una cosa del genere non era mai stata realizzata. Quando si pensa al teatro vengono subito in mente i canoni di uno spettacolo che segua un filo logico, noi invece rompiamo gli schemi e le convenzioni sociali di questo luogo. Una mia cara amica mi ha detto che abbiamo un pubblico da concerto e, in effetti, quando saliamo sul palco sentiamo un calore incredibile. E il teatro, che dovrebbe essere un posto dove vige il silenzio, diventa paradossalmente una bolgia.
Qual è il messaggio più strano che ti è arrivato in direct?
Ce ne sono troppi. Alcune volte mi sento in colpa quando le persone tendono ad aprirsi con me in direct, loro si liberano di pesi di cui poi mi faccio carico io. Preferisco comunque non rendere pubblici i messaggi più strani che arrivano e usarli per lo spettacolo dal vivo per vederne la resa.
Puoi fare un esempio?
Credo che se lo facessi, chiuderebbe il giornale (ride, ndr).
Torniamo indietro ai tuoi inizi su YouTube. Pensavi che questo percorso ti avrebbe portato dove sei oggi?
Ho caricato il mio primo video su YouTube il 21 dicembre 2012 sulla profetica fine del mondo, avevamo registrato con i miei compagni di classe. Andavamo in giro per Napoli a chiedere agli anziani come si stessero preparando a questo evento. Poteva essere anche il primo e l’ultimo contenuto sul mio canale, ho iniziato senza alcuna prospettiva e per puro divertimento. Frequentavo un Itis e cercavo di far trascorrere le giornate pur di non studiare. Oggi mi piange il cuore se penso che i ragazzini non aprono più un canale YouTube partendo da zero, con tutta la gavetta che internet richiede, ma cominciano a registrare video su altre piattaforme con l’obiettivo di avere un seguito e nella speranza che l’algoritmo possa favorirli. Non lo fanno più per loro stessi o perché hanno qualcosa da dire.
A proposito, molti ragazzi e ragazze nati nei primi anni del 2000 sono cresciuti con i tuoi video. Come ti fa sentire?
In colpa, perché penso che a 14 anni potevano vedere qualcosa di più costruttivo e invece seguivano personaggi come me. C’era un problema di base già dieci anni fa e con il tempo credo non sia cambiato assolutamente niente.
Il pubblico generalista ti ha conosciuto con l’Isola dei Famosi. In un tuo video l’hai paragonata a un carcere. Cosa hai provato in quei mesi?
Quando mi è stato proposto di prendere parte al programma, necessitavo di una cassa di risonanza che potesse darmi credibilità non solo sul web, ma anche in televisione. Il compromesso al tempo fu di partecipare al reality. Ho paragonato la trasmissione a un carcere perché sei relegato su un’isola dispersa e vivi in una comunità di 30 persone: quando sei lì, ogni giorno che passa non vedi l’ora di uscire. Nel momento in cui finisce tutto, però, quell’esperienza ti manca.
Parteciperesti di nuovo?
Solo con il compromesso di non essere parte di un reality. Magari per sette giorni pativi fame, sofferenza e solitudine, poi andavi in studio, c’era qualcuno pronto a offenderti e chiedevano chi avesse mangiato il cocco. I problemi, però, erano ben altri. A livello umano ho un ottimo ricordo di quei mesi perché l’Isola ti cambia: le distrazioni sono zero, capisci quali sono le priorità della vita, che spesso diamo per scontate. L’importanza dei genitori, dei familiari, degli amici. Tornare alla quotidianità però non è facile, una volta reinserito nella routine c’è sempre la remora di fare, ad esempio, una chiamata in più.
È stato difficile tornare alla quotidianità?
I primi mesi sì, perché ho vissuto i mesi sull’Isola in una comunità di 30 persone. Quando è finito il reality, il contatto con le persone che mi stavano addosso e mi riempivano di domande mi ha provocato un po’ di ansia sociale. Ho avuto difficoltà a uscire di casa perché per me la situazione era soffocante, poi è migliorata con il tempo.
In un tuo video su YouTube hai detto di esserti sempre sempre sentito “un eterno secondo”. La vittoria all’Isola è stata un riscatto?
Sì, mi ha dato autostima e sicurezza perché ho capito che anch’io potevo sentirmi primo. Quello dell’eterno secondo è un concetto che è tornato spesso nella mia vita e che avevo incamerato. Da piccolo, quando nello sport o a scuola doveva essere decretato un vincitore, mi veniva sempre preferito qualcun altro. La stessa cosa nel periodo degli amori adolescenziali. Durante il reality ho rischiato di uscire in nomination per sesto, poi quando siamo rimasti in tre ho pensato che avrei preferito arrivare terzo piuttosto che secondo anche in quel contesto. Quando mi hanno annunciato come vincitore è stato liberatorio: sono scoppiato a piangere perché il programma era finito e anche perché dopo tanti anni, anche se si trattava di un gioco in tv, ho avuto la possibilità avere la mia rivincita e primeggiare.
La comicità a teatro è un successo di cui ti puoi vantare…
Anche in questo caso, torna il concetto di eterno secondo. Quando avevo dieci anni mia madre mi fece scoprire il mito di Massimo Troisi e la “La smorfia” insieme a Enzo Decaro e Lello Arena. Alla recita del quinto anno di elementari ero stato scritturato come sostituto nel ruolo di Massimo Troisi se il mio compagno selezionato non si fosse presentato. Il giorno della festa di fine anno il ragazzino di cui avrei dovuto prendere il posto non si era presentato fino a dieci minuti prima dello spettacolo. Mi avevano già vestito e truccato e avevo studiato un anno per essere pronto, ma sono stato messo da parte. É stata la prima mazzata che ho ricevuto.
E poi?
La rivincita con il teatro non è stata immediata. Essendo patito della stand-up comedy all’americana, mi piaceva l’idea di iniziare dai piccoli locali, quindi ho fatto tanti open mic a Milano davanti a 10-15 persone e non sempre andavano benissimo. Prima dello spettacolo con Riccardo e Dadda ho aperto gli show a Giacobazzi, il comico di Zelig. Per tre, quattro mesi, in estate, mi sono esibito nelle piazze davanti a un pubblico di sessantenni che non avevano la minima idea di chi fossi. Quelle date sono andate malissimo: tornavo nel backstage e chiedevo a Giacobazzi perché mi avesse chiamato. Stavo detestando quel lavoro. Lui, che ha un’esperienza ormai trentennale, mi disse che avevo bisogno di farmi le ossa e che dovevo riuscire a essere me stesso pure quando le cose non andavano bene. In questo modo, quando fossero girate per il verso giusto, sarei stato incredibile. Tutti quegli spettacoli sono stati la chiave per sentirmi pronto con “Esperienze D.M.”.
Cosa significa per te far ridere il pubblico?
È l’unica cosa che al momento mi rende vivo, il motore che mi motiva nel continuare a camminare sulla strada che ho intrapreso. Quando mi rendo conto che una battuta che abbiamo scritto non ottiene riscontro dal pubblico, il mio primo pensiero è ripensarla. Per adesso, la risata è la mia benzina.
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