Meraviglia Verona, 40 anni fa lo scudetto in provincia: “Bagnoli non urlava mai, il suo calcio aveva un semplice segreto”. Il racconto di capitan Tricella
- Postato il 12 maggio 2025
- Calcio
- Di Il Fatto Quotidiano
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Quarant’anni fa: altro calcio, altro mondo, altra vita. Il 1985 è l’anno di “We are the World” e di Usa for Africa, della nomina di Michail Gorbacev alla guida del Pcus in Unione Sovietica, degli ultimi colpi di coda delle Brigate Rosse con l’omicidio dell’economista Ezio Tarantelli, della strage dell’Heysel con la morte di 39 persone, di cui 32 italiani, per gli incidenti scoppiati prima della finale di Coppa dei Campioni Juventus–Liverpool, del venerdì nero della lira, delle rivolte in Sudafrica contro l’apartheid. Il 12 maggio di questo 1985, il Verona, guidato da Osvaldo Bagnoli, conquista lo scudetto: per la prima volta, nel dopoguerra, in Serie A trionfa una squadra di provincia. Verona è una città splendida, ricca e nobiliare, ma è pur sempre provincia. I veneti sono stati in testa dall’inizio alla fine. Il 3-1 ottenuto nel primo turno, il 16 settembre 1984, nella domenica dell’esordio di Diego Armando Maradona con la maglia del Napoli, ha annunciato la splendida stagione gialloblù. Il Verona non è figlio di un exploit: è il prodotto finale dell’ascesa di un gruppo che ha conquistato la promozione nel 1982 e ha perso due finali di Coppa Italia, nel 1983 e nel 1984. Il puzzle di Bagnoli è migliorato di anno in anno: ai Garella, Di Gennaro, Fanna, Galderisi, Tricella, Volpati e Fontolan, si sono aggiunti, nell’estate 1984, due stranieri importanti: il tedescone Hans Pieter Briegel e l’attaccante danese Preben Elkjaer Larsen. Il Verona è un meccanismo perfetto: gioco essenziale, buona tecnica complessiva, tenuta fisica, carattere. Tra le grandi, solo l’Inter si oppone per qualche mese, poi i nerazzurri cedono e resta il Torino a contendere il titolo, ma il Verona ha una marcia in più e il 12 maggio l’1-1 in casa dell’Atalanta certifica il trionfo. Osvaldo Bagnoli, oggi novantenne e con la memoria vacillante, viene portato in trionfo. Il capitano di quel Verona, festeggiato allo stadio prima della partita contro il Lecce, fu, ed è, Roberto Tricella, 66 anni, originario di Cernusco sul Naviglio. Questa comunità a un passo da Milano, alla quale proprio nel 1985 il presidente Sandro Pertini conferì il titolo di città, ha dato i natali anche a Gaetano Scirea e a Roberto Galbiati. Tricella ha lasciato il mondo del calcio dopo la fine della carriera: si è dedicato all’attività immobiliare.
Scirea, Galbiati, Tricella: a Cernusco nacquero i migliori liberi del calcio anni Settanta e Ottanta.
L’oratorio di Cernusco fu una palestra formidabile. Pochi mezzi, ma molta fantasia. Ricordo le partite, i tornei, le maglie che ci passavamo da una gara all’altra, consumate e bagnate di sudore. Tempi eroici, ma come ha detto una volta Sacchetti, uno dei giocatori più importanti di quel Verona, “volevamo solo giocare a pallone”. Quando stavi sul campo ore e ore, lo facevi soprattutto per passione.
Descriviamo Osvaldo Bagnoli.
Ci trattava da uomini e questo responsabilizzava il gruppo. Osvaldo è una persona semplice, ma non stupida, al contrario. Il suo calcio era semplice e intelligente: linee verticali, pochi fronzoli, essenzialità, senza rinunciare, mai, alla ricerca del risultato. Diceva “il segreto è il gol fuori casa”. Il suo schema preferito era rilancio del portiere, rifinitura, tiro, tutto in pochi secondi. Era molto onesto con i giocatori. Dava la formazione a inizio campionato, ma seguiva con attenzione il lavoro settimanale di tutti ed era pronto a cambiare idea.
Un’immagine per descrivere quel Verona?
Ricorda l’Italia del mondiale 1978 in Argentina? Fu la grande sorpresa del torneo e mostrò uno splendido calcio. Il nostro Verona fu come quell’Italia.
Quanto incise la presenza di Briegel ed Elkjaer?
Diedero forza fisica ed esperienza internazionale. S’inserirono alla perfezione in un gruppo solido, dimostrando di essere non solo campioni, ma anche uomini di valore.
Bagnoli perdeva mai la pazienza?
Quando cominciava a grattarsi il naso, era un brutto segnale. Non alzava mai la voce, in sei anni trascorsi con lui capitò solo cinque o sei volte, ma quando lo faceva, era il richiamo della foresta. Sapeva gestire bene le situazioni. Quando le partite si complicavano, nell’intervallo ci rassicurava “tranquilli, prima o poi il gol lo facciamo”.
Come si relazionava con gli stranieri?
Cercava di farsi capire, ma ogni tanto parlava in dialetto e ripenso sempre alla faccia di Briegel: ci guardava con l’aria di chi non capisse un tubo.
Briegel era un armadio.
Ricordo quando si sdraiava sul lettino del massaggiatore: le cosce erano impressionanti. Ho visto solo un calciatore con gambe potenti come le sue: Sebino Nela. Quando facevano le ripetute, il mercoledì, noi andavamo al massimo e chiudevamo con la lingua di fuori, mentre Hans sembrava che passeggiasse.
La squadra più ostica di quell’annata?
Soffrivamo l’Inter, ci eliminò in Coppa Italia, ma in campionato la regolarità fu la nostra arma vincente.
I soprannomi di quel gruppo?
Volpati era Volpe. Bruno era Piso, Pisolo. Galderisi era Nanu.
Altre figure importanti di quel Verona?
Il massaggiatore, Francesco Stefani. Grande appassionato di ciclismo e un dono nascosto nelle mani. Emiliano Mascetti, un direttore sportivo di rara onestà: profondo conoscitore di calcio e di uomini. E poi l’azionista di maggioranza Ferdinando Chiampan, il ragionier Rangogni che teneva i conti, la signora Carla che si occupava delle nostre maglie, il magazziniere Manfrin detto Pista. Era davvero una famiglia.
Quarant’anni dopo, che cosa rappresenta quel Verona per il suo capitano?
Una storia meravigliosa e un profondo senso di appartenenza a una città che ci ha dato tanto.
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