Medio Oriente in fermento. Perché gli Usa ritirano personale?
- Postato il 12 giugno 2025
- Esteri
- Di Formiche
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La notizia più significativa arriva dalla NBC, che — secondo cinque fonti “informate sulla situazione” — rivela per prima il contesto dietro alcune delle informazioni circolate durante la notte: Israele starebbe valutando un’azione militare unilaterale contro l’Iran nei prossimi giorni, “molto probabilmente senza il supporto degli Stati Uniti”. È in questo quadro che si colloca la decisione del Dipartimento di Stato e del Pentagono di ordinare il rientro del personale non indispensabile da alcune ambasciate e basi strategiche in Medio Oriente. Tra queste dovrebbero esserci la grande sede diplomatica di Baghdad — dove in passato gruppi sciiti legati ai Pasdaran hanno colpito obiettivi statunitensi — e parte del personale civile della base della Quinta Flotta in Bahrein.
L’ipotesi che Israele possa colpire da solo l’Iran non è nuova, ma prende forza mentre i negoziati tra Washington e Teheran sembrano avvicinarsi a una forma preliminare di intesa. L’accordo includerebbe concessioni sull’arricchimento dell’uranio che Israele considera inaccettabili. Lo stesso Donald Trump, che potrebbe anche ritenere accettabile un programma nucleare civile iraniano purché controllato, avrebbe chiesto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di non ostacolare il processo.
Ma Netanyahu è politicamente vincolato a una maggioranza che, senza guerra, rischierebbe di disgregarsi. Per questo continua ad alzare la pressione su Gaza — dove la campagna contro i terroristi di Hamas è ormai totale e si accompagna a piani dichiarati di rimodellamento della Striscia — e su altri fronti, come Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen. Negli ultimi giorni si sono registrate violazioni della tregua al confine nord, mentre una nave israeliana ha colpito obiettivi Houthi lungo la costa yemenita: un’operazione che segnala anche un’evoluzione nelle capacità navali di Israele.
In questo schema, così come ha ignorato la tregua tra Usa e Houthi (del quale va detto che a sua volta non tutela gli interessi israeliani), Israele potrebbe decidere di ignorare anche eventuali segnali di moderazione sull’Iran. Teheran è vista come il motore strategico degli attacchi portati avanti da milizie sciite jihadiste e palestinesi contro lo Stato ebraico, ed è considerata una minaccia esistenziale. L’ipotesi che possa disporre — o essere a un passo dal disporre — di capacità nucleari, per Israele è semplicemente intollerabile.
Negli ultimi giorni si sono accumulati elementi che possono aver spinto Tel Aviv a stringere i tempi. Oggi il Consiglio dei governatori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha approvato una risoluzione che dichiara l’Iran “non conforme” ai suoi obblighi di salvaguardia nucleare: è la prima censura formale di questo tipo in quasi vent’anni. Contemporaneamente, indiscrezioni suggeriscono che Teheran sia pienamente a conoscenza del programma nucleare segreto israeliano, compreso siti e figure coinvolte — che sono dunque potenziali target. E con il Pentagono che avrebbe presentato alla Casa Bianca potenziali piani aggiornati per colpire obiettivi sensibili in Iran, Trump ha fatto sapere di aver perso un po’ fiducia nella possibilità di raggiungere un’intesa a breve termine. E nella visione transazionale che caratterizza il suo approccio alla politica estera, ciò che non porta risultati immediati non ha valore strategico. Da aggiungere, che da Teheran arrivano provocazioni sulle volontà di arricchire uranio in altri siti (teoricamente segreti) e con centrifughe nuove e più efficaci.
Nel frattempo, il ministro degli Affari strategici israeliano, Ron Dermer, e il capo del Mossad, David Barnea, sono attesi a Mascate, in Oman, dove avranno un incontro diretto con Steve Witkoff, emissario della Casa Bianca per le negoziazioni strategiche, che sarà in Oman per il sesto round di incontri, in due mesi, con gli iraniani. È ormai prassi, già vista due settimane fa a Roma, in parallelo con il round precedente di colloqui Usa-Iran: Israele intende restare costantemente e immediatamente aggiornato sul contenuto dei negoziati, senza dover attendere i resoconti filtrati da Washington.
Difficilmente un’azione militare israeliana potrà avvenire prima del meeting di domenica, a meno che non si sia deciso di far fallire la diplomazia. Ma dopo? Tutto dipenderà dall’esito reale dei colloqui e dalla percezione, in Israele, che il tempo stia per scadere. Oppure è tutto un movimento di apparenza per portare ulteriore pressione sul tavolo dei dialoghi, ma il rischio è che la roulette russa negoziale sfugga di mano. Il maggiore generale Hossein Salami, comandante in capo dei Pasdaran, ha detto oggi: “Il nostro prossimo confronto con gli israeliani sarà molto più schiacciante, devastante e distruttivo”.