Matteo Renzi, la sua Italia Viva sembra morta
- Postato il 26 settembre 2025
- Di Panorama
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La frase prediletta risale ai tempi dei boy scout, mentre sgambettava felice a Rignano sull’Arno. È del poeta Robert Frost: «Due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta. Ed è per questo che sono diverso». Impossibile dissentire. Matteo Renzi è unico. Nessuno come lui riesce a coniugare colossale ambizione e fragorosi fiaschi.
L’ex premier si immaginava come il professor Keating, interpretato dal compianto Robin Williams, che nell’Attimo fuggente conquistava gli studenti leggendo quel metaforico verso. Solo che gli elettori hanno accuratamente evitato di portare in trionfo l’ambiziosissimo ex premier.
La strada imboccata il 16 settembre 2019, quando decise di fondare Italia Viva, è diventata un vicolo cieco e buio: percentuali da prefisso, sostanziosi debiti, continue defezioni.
L’idea di Casa riformista
Sei anni dopo, il tenace Matteo si rimette quindi in cammino. Accoglie il suggerimento dell’Akela giallorosso, Goffredo Bettini. Il capo branco del centrosinistra vuole una tenda riformista? Matteo, l’ex lupetto più famoso d’Italia, prima si attrezza con picchetti e sacchi a pelo. Poi, riflette sui redditi milionari che s’è garantito a suon di controverse consulenze: poco spartani, in effetti.
Infine, decide di impratichirsi con mattoni e livella. Italia Viva è morta? Basta scimmiottamenti berlusconiani. Nasce l’austera Casa riformista. Alle prossime regionali promette sconquassi. Si presenta in Calabria, Campania e Toscana. E verrà consacrata in occasione dell’imminente Leopolda, a inizio ottobre.
Obiettivo: rifarsi una reputazione
L’intento di Renzi è iperuranico: rifarsi una reputazione. Da distruttore a costruttore. Ma pure il programma della nuova sigla pare ambiziosetto: attrarre i moderati, spaventati dall’ultra progressismo di Elly Schlein e dall’arci fregolismo di Giuseppe Conte.
Urge superare il quaranta per cento e battere il centrodestra. L’idea non è certo rivoluzionaria. Anzi, assomiglia a una mossa disperata. Il partito boccheggia. E la soglia della legge elettorale rimane fissata a un ormai inarrivabile tre per cento.
Pur di rimanere in Parlamento, alle elezioni del 2022 Matteo s’era già dovuto alleare con l’altrettanto egotico Carlo Calenda, leader di Azione. Prevedibilmente, è finita in irripetibili insulti.
Bilanci, conti e donatori
A Renzi, però, non difettano idee e tempismo. Ritenta la disperata impresa, nonostante i tribolati trascorsi. Quando si tratta di votare, lo liquidano come un petulante predicatore della domenica mattina, pieno di opuscoli e libricini.
Era il settembre 2019, dunque. Dopo una lunga stagione a Palazzo Chigi, l’ex segretario del Pd decide di fondare Italia Viva. «Avremo centinaia di sindaci, una cinquantina di consiglieri regionali, migliaia di amministratori e soprattutto un sacco di comitati e semplici iscritti», promette. «Non saremo un partito del cinque per cento», giura.
«Magari» risponderebbero oggi i 13 parlamentari rimasti: un terzo di quelli che, sei anni fa, lo seguirono speranzosi.
Italia Viva perde pure l’unico invidiabile record conquistato nel tempo: fare incetta di finanziamenti, tra imprenditori e supporter. Nel 2022 aveva raccolto quasi 2,3 milioni di euro. Nel 2024, l’anno delle elezioni europee, s’è invece fermato a 908 mila euro.
Il bilancio chiude con un considerevole rosso: 1,4 milioni. Tra le spese, spicca il sostanzioso costo di «pubblicità e propaganda»: quasi 1,7 milioni. Nutrita anche la voce per «rappresentanza, viaggi, trasferte, alberghi e ristoranti»: circa 465 mila euro. Altri 99 mila euro, poi, vengono investiti nel sito.
Le premesse contabili, per il 2025, sono ancor più funeste. Nessuna donazione di munifici privati o aziende amiche. Persino il generosissimo finanziere Davide Serra non ha ancora versato un centesimo.
Adesso sono rimasti soprattutto gli oboli di deputati e senatori. Così, tra gennaio e agosto di quest’anno, le “iniezioni” raggiungono appena 205 mila euro: un terzo dei soldi raccolti nello stesso periodo del 2024.
Forever young, almeno a parole
Lui non desiste. Rilancia con vigore. Ha sobriamente festeggiato i suoi cinquant’anni in un teatro fiorentino, sulle note degli Alphaville: «I want to be forever young».
Elly balbetta. Giuseppi cavilla. Il supergiovane Matteo, invece, sembra più tonico che mai. È l’indiscusso alfiere della propaganda antimeloniana. Il ruolo gli assicura quella sterminata visibilità di cui ha disperato bisogno. Spunta ovunque. Giornali e tv se lo contendono, speranzosi di poter concedere alle agenzie un tambureggiante virgolettato.
Il Bomba non delude mai. Dopo aver dedicato alla premier il suo ultimo libro dal titolo L’influencer, svillaneggia gli avversari con inedita perseveranza.
I fedelissimi all’attacco
I tentativi più audaci sono affidati ai fedelissimi. Il senatore Enrico Borghi accusa falsamente Meloni di usare voli di Stato per i suoi viaggi privati. Dimentica però il mitico “Air Force Renzi”, voluto dal suo leader ai tempi di Palazzo Chigi e costato 150 milioni di euro.
Un altro mastino, il deputato Francesco Bonifazi, presenta due interrogazioni alla Camera su eventuali regali ricevuti da Meloni e sui soldi spesi per la nuova casa.
Pure lui, colto da memoria selettiva. Fu Panorama a rivelare che la villa di Pontassieve della famiglia Renzi era stata ristrutturata, tra l’ottobre 2004 e il luglio 2006, da una società di costruzioni dell’amico Andrea Bacci: la Coam, poi fallita.
Due mesi dopo la fine dei lavori, l’imprenditore venne chiamato da Renzi, a quel tempo presidente della provincia di Firenze, per dirigere la partecipata Florence Multimedia.
Bacci, sprovvisto di ricevute, aveva negato ogni nesso: «M’ha pagato, altrimenti io quei lavori non li facevo mica eh!». Sì, ma quanto? Non è che c’è scappato uno sconticino?
Renzi contro Meloni
La coerenza, però, non rientra tra le qualità dello scatenatissimo. Al contrario della pervicacia: «Non possiamo permettere altri cinque anni di Meloni a Palazzo Chigi» avverte. «Ma soprattutto: non possiamo consentirle di eleggere il primo presidente della Repubblica sovranista».
Sotto il tetto di Casa riformista, dunque. Destinata a replicare le baruffe della ben più celebre Casa Vianello. Tanto che Bettini, memore di sanguinosi dissidi, decide di spalleggiare Renzi: «Ha detto una cosa importante: occorre segnare una riga tra il passato e il futuro».
Il redento avrebbe persino colto «la temperie autentica del nostro elettorato in questo momento: che vuole unirsi su una scelta di civiltà».
Ottimismo di centrosinistra
I sondaggi, per il centrosinistra, non sono esaltanti. Eppure, l’ottimismo sembra sconfinato. Dario Franceschini, lo sherpa piddino, conferma: «Vincere le prossime elezioni politiche non è soltanto possibile, è probabile».
Occorre appena un piccolo sforzo: «Servono i voti di un’area moderata che oggi è frammentata e litigiosa». Un partito che raccolga almeno il sei per cento, quindi.
E chi meglio di un attaccabrighe ossessivo-compulsivo può realizzare il sogno vagheggiato da anni?
Leopolda e nuova stella
Per agevolare la disperata impresa, Matteo così spiega: «Non voglio fare il leader di quest’area, ma il ricostruttore». Preso dalla disperazione, ricomincia allora a parlare con i vecchi nemici. Bazzica perfino le feste dell’Unità.
Intanto, a inizio ottobre, c’è la Leopolda. Tra gli invitati, tutti i nuovi potentoni d’area: dal sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, al candidato governatore in Puglia, Antonio Decaro.
Ad illuminare la kermesse, però, sarà la stella più abbacinante del firmamento. La pupilla. L’erede designata. È Silvia Salis, sindaca di Genova. Lui l’ha già imposta in Liguria, sfruttando i cincischiamenti degli alleati.
Tenterà di replicare l’operazione nel campo largo. Non è solo alta, bella e bionda. Salis buca lo schermo, vanta illustri sostenitori, nutre sconfinate ambizioni.
L’investitura arriva lo scorso giugno, quando viene celebrata, proprio a Genova, l’assemblea nazionale di Italia Viva. «Non a caso» ammette Renzi sibilino. Poi, sale sul palco e annuncia il cantiere riformista.
Sembra l’estrema unzione della sua agonizzante creatura. Matteo, però, non demorde. Morto un papocchio, se ne fa un altro.