Maschicidi: quando a subire è l’uomo

  • Postato il 2 agosto 2025
  • Di Panorama
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Alfonso ha trascorso novanta giorni fra il letto di un ospedale e una sedia a rotelle. È caduto dalle scale riportando la sublussazione della rotula del ginocchio sinistro. E visto che da giovane aveva subito l’amputazione di metà gamba per un incidente, non sapeva se sarebbe più tornato a camminare. Sembra soltanto una storia più triste di altre, ma c’è altro. Un dettaglio. A spingere giù dalle scale il già disabile Alfonso è stata sua moglie. E lo ha fatto davanti alla loro figlia di 5 anni. È una vicenda che si porta dietro una sofferenza enorme. Fisica e psicologica. Lui, infatti, fa parte di una minoranza silente: quella degli uomini che vengono maltrattati e umiliati dalle loro compagne.

Nell’ombra

La situazione è in espansione, anche se racchiudere il fenomeno in un numero è impossibile, mentre è ridicolo citarlo in relazione a notori fatti di cronaca come il caso Sangiuliano-Boccia. Il problema è culturale e metodologico. È l’effetto perverso di una società dove la figura del maschio debole è stigmatizzata. Ammettere di essere bistrattati dall’altro sesso vuol dire spogliarsi della propria virilità. Così si preferisce subire in silenzio, finendo spesso per non distinguere il confine tra una lite e un sopruso psicologico.

La violenza femminile viene ancora considerata «lieve», e per questo sopportabile. Il primo studio italiano sulla violenza domestica sui maschi è datato 2012. Solo che non ne sono stati pubblicati altri. Allora l’Università di Siena condusse un’indagine su un campione di oltre mille uomini. E lo fece a budget zero. Il ministero delle Pari opportunità non rispose nemmeno alla richiesta di promuovere l’indagine conoscitiva. Alla fine, venne fuori che oltre il 60 per cento degli intervistati aveva subito un’aggressione fisica da parte di una donna, mentre il 66 per cento disse di essere stato umiliato dalla propria partner davanti ad altre persone. Tredici anni più tardi questi rimangono gli unici dati disponibili per fotografare il fenomeno. L’Istat, che si è occupato a fondo della violenza di genere, ha affrontato la questione soltanto per quanto riguarda gli omicidi, ossia gli atti più estremi e rari. L’analisi sul 2023 racconta che il 6,7 per cento degli assassinii è stato commesso da donne e che in 12 casi su 20 la vittima è stata un uomo. Per il resto bisogna affidarsi alle pochissime associazioni che forniscono sostegno agli uomini. Tra queste c’è «Perseo», che dal 2019 si batte per accendere un riflettore sul fenomeno. Sostiene che nei primi cinque mesi di quest’anno 151 maschi hanno chiesto aiuto, con una crescita del 100 per cento rispetto ai 12 mesi precedenti. «Non esistendo un sistema strutturato di ascolto per queste vittime» spiega la sociologa Barbara Benedettelli, autrice del libro 50 sfumature di violenza «il fenomeno è sottostimato. Emblematico il dato sui suicidi da separazione: nel 2017 ne ho rilevati 39, di cui 32 maschili. Questo conferma un grave disagio sommerso». Ma le forme di violenza cambiano in base a chi la mette in atto. «Gli uomini tendono a compiere atti letali, legati a esplosioni di violenza fisica o all’incapacità di gestire il fallimento relazionale» continua. «Le donne invece agiscono spesso in forme più indirette: psicologiche, economiche, relazionali. Ma non mancano violenze e omicidi femminili legati a vendetta o senso del possesso. Occorre superare la visione rigida di vittime e carnefici definiti solo dal sesso biologico. Inoltre, la violenza femminile è spesso derubricata a “difesa”».

Doppia discriminazione

I cortocircuiti sono tanti. Perché per un uomo è difficile anche solo trovare qualcuno disposto ad ascoltare. Nel 2006 il Dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del Consiglio ha istituito il numero antiviolenza “1522”, definendolo: «Gratuito, attivo 24 ore su 24» e pronto ad «accogliere con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostengo delle vittime di violenza e stalking».

Eppure, nonostante non ci sia nessun riferimento al genere della persona bisognosa di aiuto, il centralino prende in carico solo casi che hanno come vittima le donne e come aguzzini i maschi. Agli uomini che alzano la cornetta (come abbiamo fatto noi per scrivere questo articolo) viene consigliato di «rivolgersi a un consultorio» o al 112. È una situazione paradossale. Perché tiene fuori tanto i maschi eterosessuali quanto la comunità Lgbtqi+. C’è una storia che spiega bene questo caos. Qualche tempo fa un ragazzo di nome Marco si è presentato al Pronto soccorso dopo essere stato stuprato dal suo compagno. La visita ha accertato la violenza, descrivendola nel referto, ma in ospedale gli dicono che non possono attivare il «codice rosso» perché si tratta di un atto perpetrato da un maschio su un altro maschio. Stesso discorso che il ragazzo e il suo avvocato sentono fare prima al centro antiviolenza femminile e poi al consultorio. Alla fine Marco è stato affidato a uno psichiatra che, al posto di una terapia psicologica, gli ha somministrato dei farmaci. A offrirgli sostegno ci ha pensato Perseo. «In Italia ci sono tre centri antiviolenza per gli uomini» spiega Fulvia Siano, psicologa clinica e giuridica, presidente di Perseo. «Per le donne sono 300. I bandi pubblici sono riservati alle donne che subiscono violenza da parte degli uomini».

Vittime

Qualcosa però sta cambiando. Lentamente. A inizio luglio, infatti, l’assessore alle Pari opportunità del VI municipio della Capitale, ha annunciato l’apertura di uno «Sportello antiviolenza per uomini» negli spazi dell’Ufficio Anagrafe locale. È una zolletta di zucchero in un mare di lacrime. Perché i casi sono tanti e anche molto diversi fra loro. C’è l’uomo preso a pentolate in testa dalla compagna, l’anziano che dorme in garage perché moglie e figlia non vogliono farlo entrare in casa. E c’è chi, come Riccardo, è finito in ospedale con un labbro aperto dopo essere stato frustato con un caricabatterie. E si è anche sentito dire che «se l’era cercata».

Eppure, tracciare un identikit di questi uomini non è difficile. «La maggior parte è impantanata in relazioni disfunzionali e tossiche» aggiunge Siano. «Ha un profilo di dipendenza affettiva e fatica a riconoscersi nel ruolo di vittima. Vengono criticati davanti ai figli, sminuiti anche dal punto di vista sessuale, dipinti come incapaci».

È quanto successo a Francesco. Sua moglie ha iniziato a svilirlo davanti alle bambine. «È bene che sappiano che tu non vali niente», gli diceva. Poi una sera, mentre lui leggeva una favola alle figlie sul lettone, la donna si era avvicinata e gli aveva tastato il bassoventre. «Sai, in paese girano certe storie, volevo sapere se davvero ti eccitavi» aveva detto. La tensione si è dilatata fino a quando la signora non gli ha spezzato un polso. In quel momento Francesco ha deciso di rendere pubblico il suo inferno privato rivolgendosi alla polizia. «Ma proprio allora è iniziato il lockdown» ci racconta «sono stato mesi in casa con una donna che avevo denunciato. Io posso dire di conoscere l’inferno».

Il problema è capire quando mettere un punto e dire basta. «Accorgersi di vivere una violenza psicologica non è facile» conclude Siano. «Gli uomini devono denunciare quando si sentono distrutti da una relazione, quando si convincono di non valere o non sono liberi di esprimersi o di vivere con serenità». Senza vergogna.

Autore
Panorama

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