Martiri in divisa: come l’Autorità Palestinese finanzia e celebra il terrorismo, anche con fondi esteri
- Postato il 15 luglio 2025
- Di Panorama
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Giovedì scorso, in un supermercato alla periferia di Gerusalemme, in Cisgiordania, l’agente di sicurezza civile israeliano Shalev Zvuluny è stato ucciso a coltellate e colpi d’arma da fuoco da due uomini arrivati in auto rubata. Erano entrambi membri della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). L’episodio come ricorda il Wall Street Journal , ignorato in gran parte dalla stampa internazionale, ha suscitato sgomento ma anche un senso di déjà vu tra gli analisti. Non si tratta infatti di un caso isolato. Secondo un’inchiesta condotta da Palestinian Media Watch, centro di ricerca con sede in Israele, l’ANP non solo tollera la violenza armata, ma la finanzia apertamente e la incoraggia simbolicamente attraverso le sue istituzioni.
“Pagare per uccidere”
L’Autorità Palestinese destina oltre 300 milioni di dollari l’anno – l’8% del proprio bilancio – al pagamento di stipendi mensili a terroristi incarcerati e alle famiglie dei cosiddetti “martiri”. Il principio è semplice: più grave è l’attacco, più alto sarà il sussidio. Un incentivo alla violenza che, secondo lo studio, rappresenta un elemento strutturale della politica dell’ANP, non un’anomalia. Il sostegno economico arriva nonostante le restrizioni imposte dagli Stati Uniti. Il Taylor Force Act, approvato nel 2018, vieta a Washington di versare aiuti diretti all’Autorità Palestinese finché questa continuerà a sovvenzionare il terrorismo. Tuttavia, i fondi destinati alle Forze di Sicurezza dell’ANP (PASF) costituiscono un’eccezione. Il Dipartimento di Stato americano ha confermato che tale supporto “limitato” continua, con la finalità ufficiale di garantire stabilità in Cisgiordania, contenere le cellule terroristiche e tutelare la sicurezza d’Israele.
Eroi, non assassini
Il problema – documenta Palestinian Media Watch – è che proprio queste stesse forze di sicurezza vengono addestrate, stipendiati e poi celebrano i propri membri responsabili di attentati. Il caso di Naji Arrar, condannato a 18 anni per attacchi armati e liberato recentemente da un carcere israeliano, è emblematico: al suo rientro in uniforme nella propria unità, è stato acclamato come un eroe. Con lui, nella foto commemorativa, anche la governatrice di Ramallah, Laila Ghannam. E ancora: lo scorso 26 marzo, il quotidiano ufficiale dell’ANP ha riportato che il Servizio di Intelligence Generale ha elargito bonus extra a 38 famiglie di “martiri e prigionieri” delle forze armate operative a Jenin. L’ordine, secondo il giornale, è partito direttamente dal generale Majed Faraj, stretto collaboratore del presidente Mahmoud Abbas, che ha definito i destinatari del denaro «i migliori tra noi». L’elogio come ricorda il WSJ è esteso anche agli assassini di Zvuluny, celebrati sempre sul quotidiano dell’ANP come eroi della resistenza. «Non solo non nascondono l’impiego di membri delle forze di sicurezza in attività terroristiche», sottolinea lo studio, «ma ne fanno motivo di vanto». Un video promozionale pubblicato da Fatah nel 2022 sintetizza la narrazione con uno slogan inquietante: «Di giorno agenti, di notte combattenti altruisti».
Aiuti americani sotto silenzio
Un portavoce del Dipartimento di Stato USA aveva promesso chiarimenti su fondi e scadenze legate al supporto finanziario ai PASF. Aveva perfino menzionato l’imminente pubblicazione di dati ufficiali. Poi, il silenzio. Nessun dettaglio è stato più fornito. Né sul totale versato, né su eventuali vincoli, né sui controlli in atto. Intanto, gli stessi fondi americani – destinati in teoria a rafforzare la stabilità – potrebbero essere finiti indirettamente nelle mani di chi ha usato la propria posizione per compiere un omicidio.
Due popoli e due Stati, ma con chi?
Le forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) risultano profondamente compromesse da legami strutturali con il terrorismo. L’adesione a pratiche terroristiche non viene ripudiata né dall’ANP né dal movimento Fatah, ma piuttosto esaltata come parte integrante e gloriosa della funzione svolta dalle PASF (Palestinian Authority Security Forces). L’Autorità Palestinese e Fatah non rappresentano queste azioni come deviazioni isolate o tragiche anomalie, bensì come elementi ordinari e onorifici. Gli agenti delle PASF coinvolti in attività terroristiche non vengono isolati né puniti, ma celebrati: chi perde la vita viene omaggiato con cerimonie funebri a carattere militare, chi esce di prigione è accolto trionfalmente come un eroe. In questo contesto, la prospettiva di affidare a queste forze la gestione della Striscia di Gaza, una volta smantellate le infrastrutture terroristiche da parte di Israele, appare non solo pericolosa, ma del tutto inaccettabile per chiunque abbia come obiettivo una pace duratura. La futura autorità militare incaricata dell’amministrazione post-bellica di Gaza non può presentare alcun tipo di coinvolgimento organico con il terrorismo, altrimenti l’intera operazione di smantellamento jihadista sarà risultata vana. È indispensabile identificare nuove strutture politiche e forze di sicurezza esterne all’attuale apparato dell’Autorità Palestinese, la cui leadership – sia civile sia militare – sostiene apertamente gruppi terroristici. Hamas, ANP e Fatah condividono infatti una matrice ideologica e operativa radicata nel terrorismo, e non faranno che rilanciarlo ovunque venga concesso loro di esercitare potere. L’Autorità Palestinese e le sue forze armate costituiscono quindi un fattore chiave della crisi, non certo una possibile via d’uscita. Illudersi che possano contribuire alla soluzione rappresenta un tragico errore strategico.