Marco Polo e la vera storia del mondo scritta nella stoffa di lusso
- Postato il 6 luglio 2024
- Di Il Foglio
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Marco Polo e la vera storia del mondo scritta nella stoffa di lusso
“Adesso non si potrebbe più”, dicono tutti i visitatori occidentali della mostra “I mondi di Marco Polo”, aperta fino al 29 settembre a Palazzo Ducale, a Venezia, alzando la testa sulla mappa del suo viaggio, riprodotta in scala appropriata all’ingresso. No, a settecento anni dalla morte di Marco Polo non si potrebbero attraversare, se non a rischio della vita e comunque con grandi difficoltà fin dalla concessione dei visti, Armenia, Turchia, Georgia, Iran (ai tempi della famiglia Polo, il reame di Mosul e quello di Persia), il Turkestan, la regione di Beijing, il Tibet, la Birmania, e poi rientrare attraverso il Gujarat indiano, Mogadiscio, l’Abissinia. Non che all’epoca i viaggi fossero sicuri, tutt’altro, neanche a metterci ventiquattro anni come lui, il “Milion” come era ribattezzata per aferesi gran parte della famiglia Polo, e pur restando per diciassette alla corte del Gran Khan come consigliere.
Eppure, di quell’età irripetibile denominata in seguito come “pax mongolica” che permetteva di viaggiare in modo sicuro lungo strade e regioni fino ad allora poco note, il viaggio di Marco Polo è prova inconfutabile, e della ricchezza degli scambi fra popoli e fedi, questa mostra è testimonianza di una ricchezza tale che in questo periodo non può che lasciare una profonda amarezza. Come i due curatori, Giovanni Curatola e in particolare Chiara Squarcina, direttrice scientifica dei Musei Civici di Venezia, siano riusciti a lavorare con un numero così importante di musei e fondazioni, dal Museo di Shanghai dove la mostra approderà in autunno, è prova della fitta rete di relazioni che gli studiosi internazionali, e dei rapporti che la nostra diplomazia intrattiene su temi rilevanti come l’arte come leva di pace, oltre la politica. Ne è prova l’unico documento che è assolutamente vietato fotografare, una miniatura tratta dal “Jami al-Tawarikh”, letteralmente “Compendio delle cronache”, o “prima storia del mondo”, manoscritto redatto probabilmente a Tabriz attorno al 1314. Prodotto nell’ikhanato mongolo, in pergamena, è un prestito della Library dell’Università di Edimburgo, e raffigura la nascita del profeta Maometto, circondato da angeli dalle grandi ali. Vi si scorgono tutti i volti. Non fosse per la foggia degli abiti, sarebbe perfettamente equiparabile a una rappresentazione coeva, occidentale, della nascita di Cristo: eppure, questa miniatura è considerata blasfema dagli islamici oggi, così come l’avanzare dell’islamismo fece decadere le fiorenti industrie della manifattura di lusso per l’esportazione. Ci sono storie di scambi, di interessi comuni, di influenze reciproche, che è profondamente sbagliato minimizzare e cancellare, e che rimangono, ignote a chi è incapace di vederle, perfino nei tessuti riprodotti nei dipinti. Per questo, riproduciamo un estratto del saggio di Squarcina riprodotto nel catalogo, edito da Magonza.
Da sempre i tessuti, con le loro affascinanti peculiarità estetiche, sono la testimonianza di un costante scambio, creativo e commerciale, tra Oriente e Occidente. Un mondo sotterraneo, mai banale e scontato in quanto testimone di un presente proiettato verso il futuro, da cui si comprende come la stessa impostazione narrativa europea si sia potuta evolvere grazie alla libertà compositiva orientale.
A fronte di questa premessa, Venezia fonda i suoi paradigmi sul commercio attraverso il quale plasmerà tutta la sua attività politico amministrativa. Per mille e seicento anni si consolidò una piattaforma di relazioni e scambi dove il tessuto, come le spezie e il vetro, fu uno dei principali nonché indiscussi protagonisti sia grazie ai rapporti preferenziali con Bisanzio, sia per la fortuita ma determinante inclusione nel panorama manifatturiero lagunare dei lucchesi, grazie alla tormentata e storica controversia tra Guelfi e Ghibellini, sia per la tutelata competitività che la Serenissima costruì attorno alle sue produzioni. Solo per citare alcuni dei pilastri di un’architettura commerciale che ha resistito fino alla fine della Repubblica.
Venezia, Genova e Lucca dapprima assicurarono per proprio conto la produzione di alcune fabbriche, sia in Oriente che in Spagna, poi ne fondarono di proprie. Per comprendere questa articolata situazione ci aiutano gli accordi stipulati tra i veneziani e gli armeni come altri documenti da cui risulta che a Costantinopoli e in Siria i veneziani possedessero proprietà immobiliari proprio per garantirsi una residenzialità finalizzata al controllo delle produzioni e delle esportazioni. I genovesi non erano da meno in quanto stanziali a Tebe ed Atene mentre i lucchesi, che si servivano per il commercio dei porti della Repubblica Pisana, erano detentori di numerose e prestigiose manifatture a Barcellona.
Una realtà che alla fine poteva sfociare solo in una trasposizione logistica delle manifatture in loco. Un passaggio non immediato ma prevedibile ed agevolato da una lenta ma inesorabile trasformazione sociale provocata soprattutto dalle Crociate. Va ricordato che contemporaneamente al crescente interesse europeo per le stoffe pregiate, le fabbriche orientali ed arabo-ispane decadevano. Una situazione complessa che risentiva delle vicende politiche incombenti su Persia e su tutta la Mesopotamia senza dimenticare le severe restrizioni religiose che intralciavano la produzione dei ricchi tessuti. A Venezia già prima del 1265 era stata redatta la riforma di un precedente capitolare col quale i maestri dei tessitori si erano costituiti in una corporazione d'arte per la tutela dei comuni interessi. In un primo momento, la fedeltà al modello bizantino è tanto perfetta che rende difficile l'identificazione delle stoffe veneziane e ne diminuisce il valore e l'interesse rispetto all'arte italiana, perché non si riscontra l'impronta di uno stile occidentale e nemmeno la tutela con cimosa verde dei tessuti veneziani. Un accorto protezionismo doganale della Repubblica che si premunì dalla concorrenza lucchese ed indusse i profughi ad installare l'industria nel proprio territorio. Con questo nuovo impulso Venezia divenne un grande centro produttivo del tessile tanto che nel 1366 si nomina un'apposita commissione di sorveglianza sull'arte della seta «molto cressuda e continuamente cressente di bene in meglio, perchè non si corrompa». (nel secolo XIII) l'arte tessile italiana in quest'epoca (era) giunta ad emanciparsi dallo schematismo dei modelli bizantini rispetto alla cristallizzazione dell'arte araba che ripeteva di tessuto in tessuto le sue fioriture. Questa evoluzione verso il naturalismo è parallela a quella che si compì in tutta l'arte italiana dove si riconosce l'influenza rinnovatrice del gotico.
Nei tessuti le file regolari dei motivi si spezzano, l'ordine simmetrico si interrompe, gli animali sono sempre ritratti in lotta ed in corsa, nemmeno le piante possono sfuggire a questa nuova tendenza: le radici si attorcigliano, le foglie e i fiori si piegano, si contorcono in modo tale che davanti ad alcune stoffe si ha l'impressione che una folata di vento abbia sconvolto il disegno.
Questo stile rimarrebbe incomprensibile se non vi si riconoscesse un elemento totalmente nuovo: l'influsso cinese. Ne abbiamo una duplice conferma: artistica e storica. La Cina è l'eterna creatrice dei motivi in continuo movimento, del favoloso e dell'inafferrabile reso col rapido tratto inventivo sostenuto da uno straordinario gioco di luci ed ombre.
Nelle stoffe italiane di quest'epoca appaiono numerosi i più comuni simboli della tradizione allegorica cinese: foglie di loto, animali fantastici derivati dai Qilin e Fenghuang, a cui si aggiunge il nastro arrotolato da cui partono raggi, simbolo cinese del cielo, con le tre sfere fiammeggianti poste sopra il fiore di loto, indice del cielo e della terra. D'altra parte i documenti storici rivelano per quale via ci siano giunti i motivi cinesi: la Persia, il grande emporio che riforniva tutta l'Europa della materia prima serica, passa in quest'epoca (1219) sotto il dominio cinese per l'estendersi dell'Impero. L'arte tessile persiana perde la sua originalità per assumere i caratteri cinesi che giungono poi in Occidente.
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