“Manovra asfittica. Il taglio Irpef non basta, serve una riforma complessiva che riporti nell’imposta i redditi da capitali e gli immobili”
- Postato il 21 ottobre 2025
- Speciale Legge Di Bilancio
- Di Il Fatto Quotidiano
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“La manovra mi pare asfittica nei contenuti e nel metodo. L’impatto in termini aggregati degli interventi sull’Irpef è molto limitato, se pensiamo che quell’imposta frutta ogni anno 190 miliardi di gettito. E quelle misure non fanno che rendere il sistema più complesso, meno lineare, più prono alle lobby“. Francesco Figari, ordinario di Scienza delle finanze all’Università del Piemonte Orientale (Novara) e fellow presso il CeRP Collegio Carlo Alberto di Torino, boccia il cuore della legge di Bilancio varata venerdì scorso e attesa ad ore in Parlamento.
La seconda aliquota Irpef scenderà dal 35 al 33%, con un meccanismo di sterilizzazione per cui oltre i 200mila euro il beneficio si azzererà. Costa quasi 3 miliardi l’anno: soldi ben spesi?
Il singolo lavoratore avrà un piccolo beneficio che però non lo compenserà del drenaggio fiscale subìto negli ultimi anni. Del resto sull’Irpef, in mancanza di una riforma complessiva, non c’è più spazio di manovra. Sotto i 15mila euro i lavoratori dipendenti di fatto non la pagano. Nella parte alta ora si iniziano ad abbassare le aliquote, ma gli autonomi fino a 85mila euro di reddito non sono soggetti all’imposta perché hanno la flat tax. Questo accanimento terapeutico quindi è incomprensibile.
Il governo introduce anche una ulteriore flat tax del 5% sugli aumenti legati ai rinnovi contrattuali per chi ha redditi fino a 28mila euro.
Non ha senso stimolare il rinnovo dei contratti usando soldi pubblici. E così si riduce ulteriormente la base imponibile Irpef. Peraltro non è chiaro cosa succederà negli anni successivi: l’incremento di reddito riconosciuto dal nuovo contratto rientrerà nel reddito imponibile o resterà fuori cumulandosi con i successivi? Se così fosse le conseguenze in termini di gettito sarebbero enormi. Aggiungo che, a fronte di livelli salariali troppo bassi, per rafforzare le buste paga bisognerebbe probabilmente ragionare di politiche industriali e di relazioni industriali invece che di stimoli fiscali. Altrettanto poco sensati sono stati i passati aumenti della soglia di deducibilità dei fringe benefit, con cui si è fatto arrivare qualcosa in più ai lavoratori ma con costi per le casse pubbliche e al prezzo di future pensioni più basse.
Nella bozza compare poi l’annunciata quinta rottamazione delle cartelle. A cui avrà accesso anche chi ha aderito alle precedenti edizioni per poi smettere di pagare.
Sul fronte della riscossione servono interventi che inducano i contribuenti ad essere sempre regolari, invece continuiamo a vedere misure che hanno un impatto opposto.
Che giudizio dà sull’attuazione della delega fiscale approvata nel 2023, che si proponeva tra il resto di aumentare l’efficienza del sistema, ridurre il carico fiscale e contrastare l’evasione?
Mi pare si sia data più attenzione ad aspetti procedurali, anche importanti ma relativi al contenzioso e agli adempimenti. Misure che dovrebbero rendere il sistema meno “vessatorio”. Per quanto riguarda le azioni intraprese sull’Irpef il giudizio è negativo: si è trattato di interventi spot approvati anno dopo anno che causano un’ulteriore stratificazione delle norme e rendono il sistema prono a errori e lobby, nel senso che senza un quadro di riforma complessivo si accontenta chi chiede qualcosa e quel che è stato già ottenuto in passato non viene tolto.
Quali dovrebbero essere i pilastri di una riforma complessiva?
L’Irpef è stata svuotata prima nella base imponibile, sottraendole i redditi da lavoro autonomo e da immobili che sono stati assoggettati a regimi sostitutivi favorevoli, e poi negli ultimi anni riducendo le aliquote. Dovrebbe invece tornare ad essere un’imposta onnicomprensiva su tutti i redditi da lavoro, da patrimoni immobiliari e da capitale. E andrebbero riviste anche le aliquote: in Francia, dove la pressione fiscale è simile alla nostra, quella del 45% scatta per i redditi oltre i 150mila euro, da noi il 43% parte dai 50mila… Il peso dell’imposta sul ceto medio è molto superiore. Del resto in Francia i redditi da capitale sono tassati al 30%, come le plusvalenze, e ogni anno dall’imposta di successione e sui trasferimenti di ricchezza arrivano 21 miliardi, più del valore della nostra intera manovra per il 2026. In Italia il gettito è di soli 900 milioni. Occorre una riforma della tassazione delle successioni.
E sul fronte dei patrimoni? Lei è tra i firmatari del manifesto Tax the rich per l’Italia, che per un sistema fiscale più equo proponeva anche un’imposta progressiva sullo 0,1% più ricco dei cittadini.
Serve un’imposta patrimoniale progressiva sulle ricchezza sopra i 5,4 milioni di euro, da collegare alla necessaria riforma dell’imposta sui trasferimenti di ricchezza.
Anche l’annunciato intervento sull’Isee, da cui verranno escluse le prime case di valore catastale fino a 91.500 euro contro i 52mila attuali, è stato presentato come un aiuto al ceto medio. La convince?
L’impatto sarà molto limitato, perché la prima casa è solo una componente del patrimonio, che a sua volta entra nel calcolo dell’Isee per il 20%. È un intervento puramente di facciata. Non vorrei che da qui poi si arrivi a svuotare uno strumento che va invece difeso con tenacia perché è l’unico mezzo per correggere un po’ la distorsione legata all’evasione reddituale. Scardinarlo andrebbe a svantaggio delle famiglie più povere.
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