“Mancanza di prove”: ecco perché gli Scanzanesi non sono un clan

  • Postato il 22 maggio 2025
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“Mancanza di prove”: ecco perché gli Scanzanesi non sono un clan

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Sulla presunta mafiosità degli Scanzanesi la Corte d’appello di Potenza si è espressa: c’è una mancanza di prove per ritenerli un clan


POTENZA – Sulla presunta mafiosità del clan degli Scanzanesi la Corte d’appello di Potenza: «ha offerto una esplicita e precisa ricostruzione fattuale e una corretta valutazione giuridica del complessivo compendio probatorio e ne ha tratto, con adeguato apparato argomentativo, immune da vizi logici e giuridici, perciò insindacabile nel giudizio di legittimità, l’inferenza che, pure in presenza di alcuni indici di rilievo indiziario, mancava in realtà la prova certa e concludente, al di là di ogni ragionevole dubbio, della sicura responsabilità degli imputati».

Sono queste le motivazioni depositate nelle scorse settimane dalla Corte di cassazione in merito al verdetto con cui ha mandato assolto Gerardo Schettino e i suoi presunti sodali dall’accusa di mafia. Confermando le sole condanne per droga, estorsioni e altri reati.
La Cassazione ha respinto, in particolare, il ricorso della procura generale che aveva impugnato la sentenza con cui la Corte d’appello di Potenza aveva annullato le condanne per mafia inflitte ai “scanzanesi” in primo grado, a Matera.

«Il ricorrente procuratore generale (…) – si legge in sentenza – nel censurare anche per molteplici e non proprio rilevanti aspetti di dettaglio il valore attribuito dalla Corte territoriale alle acquisite informazioni probatorie, tende a proporre sostanzialmente (trovando condivisione, quanto al delitto associativo di cui al capo A) e all’aggravante mafiosa per i reati fine, nella diffusa requisitoria del Procuratore generale presso questa Corte) una inammissibile rivisitazione da parte della Corte di cassazione degli elementi dimostrativi posti a fondamento delle indicate soluzioni decisorie di merito, le cui spiegazioni sembrano sorrette da un apparato argomentativo adeguato e immune da vizi logici e giuridici quanto alla critica della differente prospettazione accusatoria, e perciò non sindacabile in sede di controllo di legittimità della sentenza impugnata».

La Suprema Corte, insomma, avalla la pronuncia dei colleghi potentini in ordine alla «mancanza di una prova certa e concludente dell’utilizzo deliberato e condiviso da parte di tutti i partecipi di metodi intimidatori tipici dell’agire di un gruppo mafioso, pure nella loro declinazione agevolativa, al di fuori di singoli episodi criminosi ascrivibili alle azioni individuali o concorsuali di taluni imputati».

Nessuna prova «certa e concludente», insomma: «della sussistenza di indici sintomatici di una struttura stabile, autonoma e originale, gerarchicamente organizzata e dotata, a prescindere dalla fama criminale o dalla “mafiosità” di singoli soggetti come Gerardo (Aldo) Schettino, Porcelli e Nicola Lo Franco e della reciproca frequentazione, di una forza di intimidazione e di sopraffazione diffusa e riconosciuta nel territorio ed esercitata con metodo mafioso, nonché sostenuta da una convergente volontà dei vari partecipi di contribuire, ciascuno in un ruolo predefinito, alla sistematica programmazione e realizzazione di attività criminose per il controllo di aree e interessi economici del territorio, per l’acquisizione e il reimpiego dei proventi illeciti, per la formazione di una cassa comune e per la conseguente distribuzione di proventi».

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