Lusso e contraffazione, confine sottile

  • Postato il 19 maggio 2025
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Lusso e contraffazione, confine sottile

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L’inchiesta: Lusso e contraffazione, un sistema parallelo con la stessa efficienza del circuito legale. Il costo per l’Italia è di 1,7 miliardi di euro l’anno e 19mila posti di lavoro.


Nel racconto pubblico della moda italiana, il confine tra lusso e illegalità è netto, dogmatico: da una parte l’eccellenza del celebrato Made in Italy nel mondo intero, dall’altra le copie dozzinali che ne insidiano la reputazione. Ma la realtà, come spesso accade, è molto più opaca. Pochi giorni fa “Valentino Bags Lab” è finita sotto amministrazione giudiziaria per subappalti a opifici dove si sfrutta manodopera irregolare. In passato anche Armani e Dior sono stati coinvolti in filiere opache. Costi bassi, pochi controlli.

Soltanto nel 2023, a Bergamo, le Dogane hanno sequestrato oltre 15mila articoli contraffatti, perlopiù abbigliamento e calzature, provenienti da Paesi extra-UE. I controlli si sono concentrati sull’aeroporto di Orio al Serio e su altri ingressi merci della provincia. In parallelo, sono emerse 500 violazioni valutarie, con milioni di euro non dichiarati. Parliamo di un sistema strutturato, radicato in territori insospettabili, non di traffici marginali.

INCHIESTE E SEQUESTRI: LA CONTRAFFAZIONE INTRICATA NEL SISTEMA MODA DI LUSSO

Eccezioni? Assolutamente no. Le inchieste giudiziarie più recenti mostrano quanto la contraffazione sia intrecciata al sistema moda. A Prato, nell’aprile 2025, la Guardia di Finanza ha scoperto un laboratorio clandestino nel distretto del Macrolotto: oltre 9mila stencil, metri di stoffa e attrezzature per riprodurre loghi di lusso. Produzione stimata: 85mila capi al giorno, per un giro d’affari illecito di circa 850mila euro quotidiani. Pochi giorni dopo, un’indagine della Procura di Trieste e dell’European Anti-Fraud Office (Olaf), ha portato al sequestro, tra Italia e Belgio, di container colmi di merce contraffatta, pronta per il mercato europeo: valore potenziale oltre 100 milioni.

Produzioni seriali, logistica internazionale, organizzazioni stabili. Non è solo concorrenza sleale: è un sistema parallelo che si muove con la stessa efficienza del circuito legale. Una dinamica già descritta con lucidità e coraggio da Roberto Saviano in Gomorra, dove la filiera del falso è l’estensione naturale di quella ufficiale ed è gestita direttamente da organizzazioni criminali come la Camorra.

I DATI DEL RAPPORTO IPERICO: MILIONI DI ARTICOLI SEQUESTRATI DI CONTRAFFAZIONE, MA SOLO LA PUNTA DELL’ICEBERG NEL MONDO DELLA MODA DI LUSSO

I dati parlano chiaro. Secondo il Rapporto Iperico (Intellectual Property Elaborated Report of the Investigation on Counterfeiting, database sulla contraffazione curato dal Ministero del Made in Italy), tra gennaio 2023 e dicembre 2024, le forze dell’ordine hanno sequestrato in Italia oltre 10 milioni di articoli di moda contraffatti, per un valore di 153 milioni di euro. Ma si tratta solo del 3% del totale dei prodotti contraffatti intercettati: giocattoli, elettronica e beni di consumo completano il quadro. La maggior parte dei traffici passa inosservata, in pacchi da 149 euro e spedizioni e-commerce che sfuggono ai controlli: appena 3 su 5mila vengono ispezionati.

Il nodo più scomodo, però, non è solo quantitativo ma strutturale. In molti casi, la produzione illegale si avvale delle stesse competenze, materiali e talvolta stabilimenti di quella legale. Secondo lo studio dell’Osservatorio per l’economia sana della Camera di Commercio di Milano, pubblicato nel volume “I falsi di moda” per Franco Angeli, i principali produttori di merce contraffatta sono spesso operatori legali, dotati del know-how tecnico. Testimonianze raccolte dal Comune di Modena, nell’indagine “La contraffazione e la diffusione dei prodotti non sicuri”, confermano la sovrapposizione: artigiani regolari che, con gli stessi strumenti, producono anche il falso.

IL FENOMENO DEI “DUPE”: QUANDO L’IMITAZIONE AMPLIFICA LA CONFUSIONE

Il fenomeno dei “dupe”, copie legali senza logo ma con estetica simile ai marchi di lusso, amplifica la confusione. Su TikTok, l’hashtag #dupe ha superato i 300mila video, con repliche dichiarate di borse, profumi e accessori. Aziende come Shein, Temu, persino Amazon, vendono versioni low-cost di icone come la Flap Bag di Chanel o i sandali di Hermès. Alcuni casi finiscono in tribunale (Gcds vs Shein), ma spesso i brand evitano cause, temendo il backlash mediatico, il contraccolpo negativo sull’opinione pubblica: passare per Golia contro Davide danneggia l’immagine.

Nel frattempo, gli influencer promuovono questi prodotti, talvolta apertamente, talvolta con link nascosti, guadagnando più di chi vende l’originale. Il consumo aspirazionale è mutato: non si finge più per salire di classe, si ostenta il risparmio come affermazione. L’imitazione non è più finzione, ma rivendicazione.

Le istituzioni si muovono in ritardo. Il “Protocollo anti-contraffazione” annunciato dal Ministero delle Imprese appare più gesto simbolico che svolta concreta. I controlli si concentrano sugli ambulanti, l’ultimo anello della catena, spesso in condizioni di marginalità. Il traffico grosso, logistica ed e-commerce, resta poco toccato. Sotto i 150 euro, niente dazi. I pacchi viaggiano liberi.

IL COSTO DELLA CONTRAFFAZIONE: PERDITE ECONOMICHE NELLA MODO DI LUSSO E SFRUTTAMENTO DEI LAVORATORI

Eppure i numeri sono da economia di guerra. Secondo l’Euipo (European Union Intellectual Property Office) la contraffazione costa all’Italia 1,7 miliardi di euro l’anno nel solo comparto moda e circa 19mila posti di lavoro. In Europa il danno sale a 12 miliardi e 160mila occupati. Un danno che si somma allo sfruttamento sistemico di lavoratori, italiani e stranieri, in entrambe le filiere. Le condizioni sono spesso analoghe: salari bassi, orari lunghi, pochi diritti. Il profitto resta in alto.

LE ZONE D’OMBRA DEI “LEGAL FAKE”: UN SISTEMA OPACO

Ci sono poi zone d’ombra ancora più ambigue, come i cosiddetti “legal fake”: marchi registrati da soggetti terzi in paesi dove l’originale non è ancora arrivato. Il caso più noto è “Supreme Barletta”, brand italiano che ha sfruttato un vuoto normativo per registrare il marchio americano, vincendo anche in tribunale. Nessuna prova di collusione con le grandi case, certo. Ma molti silenzi, molte omissioni. E un sistema che resta opaco.

Secondo Confartigianato Marche, quasi il 27% delle imprese manifatturiere italiane è esposto alla contraffazione. In Toscana e nelle Marche si supera il 40%. A Prato, centro nevralgico della produzione di capi di moda contraffatti in Italia, l’84% delle imprese tessili denuncia concorrenza sleale da falsi. Eppure, nessun grande marchio ha proposto una riforma della tracciabilità o un codice pubblico di trasparenza.

CHI CI GUADAGNA DAVVERO? UN SISTEMA NELLA CONTRAFFAZIONE DEL LUSSO CHE VALORIZZA L’ESCLUSIONE

La domanda finale è semplice: chi ci guadagna davvero? Gli ambulanti? Gli influencer? O chi costruisce il desiderio del lusso come status irraggiungibile, rendendo quasi legittima la voglia di imitazione? Ci si concentra su punizioni simboliche verso i più deboli, i venditori di strada. Il falso è un reato, senza dubbio. Ma è anche il prodotto di un sistema che trasforma l’esclusione in valore.

Finché guarderemo solo in basso, continueremo a colpevolizzare i più deboli. Ma il problema vero è più in alto: in chi disegna, produce, delega, tace. La legalità, come l’autenticità, dovrebbe essere una catena trasparente. Se manca il coraggio di guardare tutta la filiera, la moda non è eccellenza: è ipocrisia di lusso.

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