L’Università di Berkeley, culla delle lotte civili degli anni ’60, dà al governo Trump i nomi di 160 tra prof e studenti che protestarono contro la guerra a Gaza
- Postato il 18 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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La pagina campeggia, non senza una certa involontaria autoironia, sul sito dell’ateneo. “La libertà di parola è indispensabile per la nostra società ed è uno dei valori più cari all’Università della California, Berkeley“, recita il testo. Che ricorda anche il Free Speech Movement nato proprio nell’istituto californiano nel 1964, “quando gli studenti protestarono contro le restrizioni imposte dall’università alle attività politiche nel campus”, influenzando l’intera ondata di attivismo giovanile degli anni ’60. Ma todo cambia en esto mundo, specie nell’era Trump. Perché nei giorni scorsi l’università ha fornito al governo federale i nomi di circa 160 tra studenti, docenti e membri del personale che avrebbero una “potenziale connessione con segnalazioni di presunto antisemitismo” nell’inchiesta aperta da Washington sulle proteste avvenute in diversi atenei contro la guerra di Israele a Gaza e l’appoggio garantito dall’amministrazione Trump al governo Netanyahu.
Berkeley non è un luogo qualsiasi nella tormentata storia dei diritti civili negli Stati Uniti. Negli anni ’60 l’ateneo fu uno degli epicentri delle proteste contro la guerra del Vietnam, con eventi che fecero epoca come l’occupazione del campus nel 1968 e la partecipazione a grandi marce come il “Moratorium to end the war in Vietnam” nell’ottobre 1969. Le manifestazioni, che affondavano le radici proprio nel Free Speech Movement, aumentarono nel ’68 con l’occupazione del campus organizzata per bloccare i procedimenti contro studenti che si rifiutavano di andare a combattere e culminarono nella repressione violenta del 15 maggio 1969, quel “Bloody Thursday” in cui uno studente perse la vita. Vicino al Movement fu anche Allen Ginsberg – poeta animatore della Beat Generation, che nel marzo 1956 tenne nell’ateneo una delle prime letture pubbliche di Howl, poema tra i testi fondativi della letteratura americana moderna che denunciava la violenza della macchina statale Usa.
Ora la stessa università aiuta il governo repubblicano a compilare le sue liste di proscrizione. L’identità delle persone finite nella lista non è stata resa nota, ma la filosofa Judith Butler ha confermato al San Francisco Chronicle che il suo nome figura tra quelli inviati. “L’inoltro di nomi è una pratica risalente all’era McCarthy. Ciò rappresenta una violazione vergognosa della fiducia, dell’etica e della giustizia”, ha scritto la studiosa di origine ebrea in una lettera pubblicata dal quotidiano. “Nessuno di noi è stato informato della sostanza delle accuse e non vi è alcuna indicazione che possiamo conoscerne i dettagli e “questo è stato uno shock per molti di noi che credevano che Berkeley fosse un’università in cui ci si potesse aspettare sostegno alla libertà di espressione e garanzie di correttezza procedurale”.
Le richieste dell’amministrazione Trump non hanno riguardato solo Berkeley. “Il governo ha chiesto i nomi di chi ha protestato a 5 atenei dell’Università della California – racconta Claudio Fogu, ordinario di Transnational Italian Studies alla University of California Santa Barbara e membro del Council of University of California Faculty Associations -. Nella primavera del 2024, dopo le occupazioni, Trump chiese i nomi dei professori che avevano firmato un appello contro l’antisemitismo dilagante e l’amministrazione centrale dei 10 atenei fornì circa 200 nomi con gli indirizzi di casa e dati personali che si sarebbe potuta rifiutare di dare. Forse qualcuno di questi ha denunciato i colleghi che hanno manifestato. Non so se il mio nome sia tra quelli che sono stati forniti a Washington perché come capo dell’associazione di facoltà ho fatto campagna a favore delle occupazioni, contro i finanziamenti e per il boicottaggio di Israele. Ora la nostra associazione è coinvolta in due cause, una contro l’amministrazione Trump per i tagli minacciati ai fondi e un’altra contro la nostra università che non ha reso pubbliche le richieste avanzate da Washington”.
Quelle che il tycoon ha avanzato nei confronti della University of California, Los Angeles – uno degli atenei dello UC System – sono finite sul Los Angeles Times. Con la proposta di accordo, che include una multa di quasi 1,2 miliardi di dollari per accuse di antisemitismo, Washington chiede all’università di dichiarare pubblicamente di aver accettato “elementi significativi della visione del Presidente Trump sull’istruzione superiore”. In cambio, il governo sbloccherà mezzo miliardo di dollari di sovvenzioni. Non solo: tra le altre cose si chiede alla UCLA di non ammettere studenti stranieri “anti-occidentali”, di pubblicare i dati relativi al personale assunto e agli studenti suddivisi per “razza, colore, media dei voti e rendimento nei test standardizzati”, di dichiarare pubblicamente che l’identità delle persone transgender non è più riconosciuta e di consentire al governo l’accesso a “tutto il personale, i dipendenti, le strutture, i documenti e i dati dell’UCLA relativi all’accordo”.
Intanto nell’intero UC System il clima si fa più aspro. Mercoledì il consiglio di amministrazione ha approvato la richiesta di 5 atenei – Los Angeles, Irvine, Santa Barbara, San Diego e San Francisco – di aumentare la dotazione di armi a disposizione della polizia in servizio nei campus. La richiesta più consistente è arrivata dalle forze dell’ordine in servizio a San Diego, che hanno bisogno di 5.000 nuovi proiettili per fucile calibro 5,56 millimetri, mentre i vertici della sicurezza di Irvine vogliono 1.500 proiettili “pepper-ball”, munizioni non letali usate usate per il controllo delle folle e la difesa personale che contengono polvere di peperoncino, che esplodono quando colpiscono un bersaglio rilasciando una nube di polvere irritante.
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