Luigi Mangione, il governo in silenzio sull’italo-americano che rischia la pena di morte: i precedenti in cui si oppose
- Postato il 18 aprile 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Un cittadino italiano rischia seriamente di essere condannato a morte in un Paese straniero. Ma il nostro governo, a differenza di quanto avvenuto in passato in casi simili, finora non ha detto una parola in pubblico per impedirlo né sembra avere intenzione di farlo. Quel cittadino è Luigi Mangione, il 26enne di Baltimora che il 4 dicembre ha ucciso a New York il manager Brian Thompson, amministratore delegato del colosso delle assicurazioni sanitarie UnitedHealthcare: un delitto discusso, considerato da molti una forma di manifestazione estrema della rabbia sociale verso un sistema sanitario iper-capitalista e sempre più inaccessibile. Giovedì Mangione è stato incriminato anche a livello federale per le accuse di stalking e omicidio con arma da fuoco, da cui si è già dichiarato innocente. E la procuratrice generale Pam Bondi, la “ministra della Giustizia” nominata da Donald Trump, ha annunciato che chiederà la pena di morte in linea con “l’agenda del presidente per fermare il crimine violento e rendere l’America di nuovo sicura“, ripristinando la pena capitale dopo la moratoria ordinata da Joe Biden nel 2021.
I precedenti – C’è un altro governo, però, che avrebbe titolo a far sentire la propria voce sulla vicenda. Il killer infatti è italo-americano: ha ottenuto la cittadinanza del nostro Paese nel 2008 grazie al nonno, immigrato italiano. E quando un nostro connazionale rischia all’estero la pena di morte, abolita e incostituzionale nel nostro ordinamento, logica vorrebbe che le istituzioni di Roma si battessero per evitarlo. Lo fece persino Benito Mussolini nella celebre vicenda di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, i due anarchici giustiziati nel 1927: nonostante le loro idee politiche – e nonostante le esecuzioni a quel tempo fossero frequenti anche in Italia – il dittatore fascista si spese personalmente chiedendo all’ambasciatore statunitense a Roma di intercedere per risparmiarli. Più di recente, nel 1995, l’allora premier Lamberto Dini pretese la garanzia di non applicazione della pena capitale per estradare Pietro Venezia, responsabile di un omicidio commesso in Florida: nonostante ciò, l’estradizione fu bloccata dalla Corte costituzionale – secondo cui quella garanzia non era sufficiente – e Venezia scontò la pena in Italia. Alla fine degli anni Novanta, poi, il governo Amato tentò senza successo di salvare Rocco Derek Barnabei, 33enne italo-americano condannato per un femminicidio di cui si era sempre proclamato innocente: fu ucciso con iniezione letale il 14 settembre 2000, nonostante gli appelli della Comunità europea e di Papa Giovanni Paolo II.
L’interrogazione di Avs – Insomma, ci sarebbero tutti gli estremi per una decisa azione diplomatica della premier Giorgia Meloni nei confronti di Trump, con cui intrattiene un ottimo rapporto: uno sforzo simile a quello messo in campo – con grandi squilli di tromba – per portare in Italia Chico Forti, imprenditore condannato all’ergastolo per omicidio negli Usa. Eppure non risulta che il tema sia stato mai sollevato dal nostro governo, nemmeno durante la visita di Meloni alla Casa Bianca avvenuta giovedì, lo stesso giorno in cui Mangione è stato incriminato. Il silenzio autorizza a sospettare che la presidente del Consiglio stia deliberatamente ignorando la vicenda per non rischiare di aprire un fronte di tensione con Trump nel pieno della delicata partita per trovare un accordo sui dazi. Così in Italia c’è chi prova a stanare l’esecutivo: Alleanza Verdi e Sinistra, con il vicecapogruppo alla Camera Marco Grimaldi, ha presentato nei giorni scorsi un’interrogazione a Meloni e ai ministri della Giustizia e dell’Interno, Carlo Nordio e Antonio Tajani, chiedendo “se non ritengano doveroso intervenire al fine di garantire a Luigi Mangione un giusto processo una giusta pena”.
“Pena di morte incostituzionale” – Grimaldi sottolinea che anche dal carcere Mangione “continua a raccogliere proficuamente fondi con una campagna di fundraising per sostenere le spese legali, a riprova del fatto che buona parte dell’opinione pubblica ritenga che a Mangione debba essere garantita la migliore difesa in tribunale e che la pena di morte, da molti americani, come anche da Papa Francesco, sia ritenuta una pena abominevole“. In ogni caso, spiega, “devono essere ancora provate” le circostanze poste alla base dell’accusa di premeditazione, cioè il fatto che “Mangione avrebbe pianificato attentamente l’omicidio, seguendo Thompson per giorni e scrivendo un diario” in cui manifestava “il suo odio verso l’industria assicurativa sanitaria”. Nel nostro ordinamento, ricorda infine, “la pena di morte è stata abolita in Italia dalla Costituzione del 1948, che non la ammette in nessun caso, anche perché contrastante con l’articolo 27 che indica nella finalità rieducativa la finalità di ogni pena; in casi simili verificatisi in passato il governo, e singolarmente il ministro della Giustizia, sono sempre intervenuti, nelle sedi opportune, al fine di scongiurare, anche in caso di condanna, l’esecuzione della pena di morte nei confronti di cittadini italiani”.
“Giustizia non è mai vendetta” – All’indomani dell’incriminazione di Mangione, Grimaldi ribadisce l’appello al governo: la condanna a morte chiesta per l’italo-americano, dichiara, è “una pena esemplare, dai fini schiettamente politici. Che va in parallelo con l’intenzione della ministra della Giustizia di ripristinare la pena di morte in tutti gli Stati Usa. Riteniamo la pena di morte un’aberrazione del diritto e, soprattutto, riteniamo mostruoso che la vita e la morte di un uomo – qualunque sia il suo crimine (ancora da dimostrare) – possano essere utilizzate per fini propagandistici. Giustizia non è mai vendetta. Attendiamo gli interventi tempestivi di Tajani e Nordio e auspico che la presidente Meloni durante il colloquio con Trump abbia sollevato la questione”, incalza. E al fattoquotidiano.it aggiunge: “Meloni non deve supplicare nessuno, deve solo provare a non rendere irreparabile un verdetto. L’errore giudiziario è sempre possibile e la pena di morte lo rende irreversibile”.
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