Lombroso, anche il crimine fa evoluzione della specie

  • Postato il 22 settembre 2024
  • Lombroso
  • Di Panorama
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Lombroso, anche il crimine fa evoluzione della specie



Il medico che a fine Ottocento sostenne tesi oggi giudicate «politicamente scorrettissime», ha lasciato comunque un segno nella criminologia. Certe sue osservazioni sulla biologia connessa al comportamento hanno confermato una qualche validità scientifica. Un nuovo libro gli rende giustizia.


Le formiche che praticano lo stupro; la cicogna assassinata per punirne l’adulterio e i castori, raccolti in un’associazione a delinquere. Le deduzioni di Cesare Lombroso (fra il 1865 e il 1878) apparvero esageratamente ardite e non gli risparmiarono critiche definitive, come raramente accade fra docenti universitari. «Manca solo» rincarò la dose il giurista Giuseppe Maggiore «che, a sostegno di una teoria scientifica, si utilizzi il gatto con gli stivali dei fratelli Grimm». E il professor Paolo Mantegazza, luminare del Politecnico di Milano, non si fece velo dell’amicizia con cui era legato e non si trattenne dal definirlo un «isterico della scienza». Eppure, a distanza di un secolo e mezzo, pur definendolo «strampalato» in alcune conclusioni, Paolo Mazzarello, docente di Storia della medicina all’università di Pavia, assicura che il personaggio, criminologo ante litteram, non merita di essere liquidato senz’appello. Evidenzia come Lombroso rivesta il carattere del «fenomeno culturale» capace di attraversare due secoli: dall’Ottocento a oggi. «I suoi scritti sono tuttora tradotti negli Stati Uniti» aggiunge lo storico. «L’idea o, forse, l’ossessione che l’aspetto fisico portasse i segni dell’uomo delinquente viene accettata. Adesso, si riconosce che la biologia sia connessa al comportamento e, in qualche modo, lo determini».

Mazzarello ha dedicato tre saggi allo studio di Lombroso e in quest’ultimo suo nuovo lavoro - in uscita da Hoepli - lo definisce Darwinista infedele, collocandolo nel cuore della tradizione scientifica del positivismo ottocentesco. «Infedele» per colpa di Clémence Royer che, dall’inglese al francese, tradusse il libro di Charles Darwin L'origine della specie utilizzando una terminologia più appropriata per Jean-Baptiste de Lamarck. Entrambi erano scienziati che cercavano di capire quale fosse la molla capace di modificare gli esseri umani, ma partivano da presupposti diversi e, soprattutto, arrivavano e differenti conclusioni. Uno - Lamarck - si era convinto che le variazioni naturali provocavano mutamenti sugli esseri - uomini o animali che fossero - obbligandoli ad adattarsi al cambiamento. L’altro - Darwin - era piuttosto convinto di uno sviluppo evolutivo autonomo determinato dalla selezione del forte a scapito del debole. Teorie non così distanti e, tuttavia, l’utilizzo non appropriato delle rispettive terminologie finì per provocare qualche confusione. Lombroso, che già mescolava la botanica con la biologia e i comportamenti animali con quelli degli uomini, non avrebbe avuto proprio da aggiungere elementi d’equivoco. Il suo percorso scientifico cominciò come medico militare (nel 1862) al seguito dei reparti di soldati che, nelle appena conquistate regioni meridionali, si trovarono impegnati nella cosiddetta «guerra al brigantaggio». Studiò e catalogò i coscritti che visitava, si occupò dei cani randagi «senza coda» nei villaggi della Calabria e notò come gli asini, rispetto ai cavalli, godessero di migliore considerazione da parte dei proprietari.

La divisa l’aveva indossata senza entusiasmo. Lasciò l’esercito per l’insegnamento: docente a Pavia, direttore del manicomio di Pesaro, medico legale nelle carceri di Torino. Incontrò le prostitute che avevano ucciso, gli uomini «gozzuti» e quelli affetti da «cretinismo». Il politicamente corretto era di là da venire. Misurò l’ampiezza della fronte dei detenuti e il folto delle loro sopracciglia. Descrisse l’uomo «uccello» per via del cranio piccolo a piramide, quello «coniglio» che si muoveva su piedi straordinariamente larghi e il «pitecoide”» più piccolo della media e capace di saltare come le scimmie. Collezionò teschi, scheletri, reperti umani e manufatti di carcerati che - come si trattasse di volumi da ordinare in libreria - allineò nel salone di casa.

Il suo interesse per la criminologia nacque lì e, seguendo le correnti culturali del tempo, immaginò che potesse esserci una «legge» in grado di individuare le devianze addirittura prima che si manifestassero. Come dire che si può riconoscere ladri e assassini già nella culla. Nella testa di Lombroso le idee si moltiplicarono e si combinarono fra loro in contesti anche bizzarri. «Era un bricoleur della scienza» commenta Mazzarello, «seguiva una sua intuizione e poi cercava di verificarla sul campo. Sarebbe stato necessario un controllo puntuale e a largo spettro. Invece, lui prendeva soltanto quello che gli serviva. In pratica, verificava le ipotesi scegliendosi le prove». Era convinto che il mondo naturale fosse un insieme compatto dove ogni essere trovava collocazione - più o meno - come l’ingranaggio di una immensa macchina. Pur nella loro complessità, questi organismi tendevano al progresso scalando i gradini verso un «meglio» successivo. Con arrischiate e confuse considerazioni evoluzionistiche, arrivò a collocare una tribù pigmea - gli Akka - sul fondo della piramide sociale dove si poteva trovare l’anello di congiunzione con le scimmie. Poi, in un’immaginaria scala di valori: le popolazioni nere, quelle gialle e infine i bianchi. Il percorso verso l’alto poteva incepparsi per alcuni individui che, nell’ideale percorso evolutivo, si fermavano o, addirittura, regredivano. Tornavano al tempo degli antenati tanto che Lombroso definì «atavismo» i segni di uno sviluppo fisico e intellettuale compromessi: come fermi all’età del progresso precedente.

Certo, in un contesto di ancora dilagante povertà, in case cenciose, fra latrine a cielo aperto e strade dove ci si faceva largo nell’immondizia non era difficile individuare famiglie segnate dalla miseria. Bastava uscire dalle città per addentrarsi nelle valli verso le montagne. Lombroso descrisse la gente della Valtellina che si esprimeva «barbugliando». Apparivano forti fisicamente ma sproporzionati nello sviluppo muscolare. E poi facce torve, inespressive, disposte all’aggressività più che al dialogo. Incontrò Teresa che aveva 12 anni ed era alta 130 centimetri. I capelli si confondevano con le sopracciglia e i peli le cadevano in primavera (come per i vegetali) per rispuntare con la nuova stagione. A Mombaroccio, sulle colline di Pesaro-Urbino, individuò «la famiglia dei selvaggi». I genitori avevano avuto otto figli dei quali solo uno poteva definirsi «normale». Gli altri non parlavano, si muovevano curvi, quasi a quattro zampe - come fossero animali - si bastonavano a vicenda e la notte si azzuffavano per poter godere di un pezzo maggiore dell’unico lenzuolo posseduto in famiglia.

Lombroso credette di spiegare questo disastro umano con il fatto che la madre, alla prima gravidanza, venne suggestionata dalla vista di una scimmia che stava partorendo. Nell’assemblaggio di queste idee che sembrava seguissero il percorso in un labirinto, le donne le maltrattò senza troppo riguardo. Nelle rispettive gerarchie, le collocò a un livello un po’ inferiore a quello dell’uomo. Potevano arrivare a mettere in mostra del talento - come accadde per Saffo piuttosto che per Madame de Staël - ma senza raggiungere la genialità. Eppure, fu proprio il mondo femminile ad assistere con maggiore condiscendenza alle sue lezioni. Lombroso veniva invitato nei salotti «vip» per raccontare le sue «scoperte» e le signore della buona società non perdevano l’occasione per ascoltarlo con golosità. Tanto sussiego - secondo il professor Mantegazza - perché «svelava un’umanità dolente con il dolore, la morte e la perversione che stava nascosta nelle pieghe di una società altrimenti appagata». «Erano i miserabili” di Victor Hugo tradotti nella realtà. Il romanzo degli emarginati che prendeva la forma del vero e - addirittura - ammantato di scientificità».

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