L’occhio di pinna, archeologo del vero Sud Italia
- Postato il 19 luglio 2025
- Di Panorama
- 3 Visualizzazioni


E’ stato uno dei grandi fotografi di Panorama, negli anni in cui era il più moderno magazine italiano. Ma è stato grande fotografo anche de L’Espresso, Il Mondo, dei rotocalchi comunisti nei quali ha iniziato la carriera (Vie Nuove, Noi Donne), e all’estero di Life, Sunday Magazine, Paris Match. È stato, poi, fotografo di fiducia di Federico Fellini, con il quale stabilisce un sodalizio tutto speciale. In un anno di centenari della nascita di alcuni maestri della fotografia italiana come Mario Giacomelli e Tazio Secchiaroli, c’è anche quello di Franco Pinna (La Maddalena 1925 – Roma 1978), le cui celebrazioni per la ricorrenza si aprono con la mostra Meridioni, voluta dalla fondazione Pio Alferano e Virginia Ippolito (Castellabate/SA, Castello dell’Abate, direzione scientifica dell’Archivio Franco Pinna, fino al 26 settembre). Perché il centenario parte dal Cilento e non dalla Sardegna, terra natale di Pinna a cui ha dedicato la sua produzione fotografica più sentita? Perché i sardi hanno maggiori possibilità quando vivono fuori dall’Isola. Davanti alla renitenza delle istituzioni pubbliche a farsi carico dell’impegno, è stato il sardo Santino Carta, presidente della fondazione Alferano, a sentire quasi l’obbligo morale di fare quanto i corregionali non facevano. Ma i sardi, almeno quelli di migliore volontà, avranno modo di rifarsi, se è vero che tra l’autunno e l’estate prossimi ricorderanno Pinna con altre iniziative.
Pinna, quindi, coetaneo di Giacomelli e Secchiaroli. Col secondo vi fu una grande amicizia, partita dalla memorabile circostanza in cui i due, accomunati da analoghe passioni politiche, si ritrovarono, come in una performance artistica, ripresi a vicenda mentre fuggivano in motoretta per evitare la reazione dei celerini (Roma, Via del Tritone, 1952), e la condivisione di uno stesso mestiere, il fotoreporter che lavora nell’ambito dell’informazione. Giacomelli, invece, appartiene a un altro versante, quello amatoriale non professionale, che si preoccupava innanzitutto di fare riconoscere alla fotografia il rango di arte a tutti gli effetti. Non che gente come Pinna fosse priva di scrupoli estetici.
Nei suoi esordi, svolti a contatto con altri giovani di belle speranze come Caio Garrubba, Nicola Sansone, Pablo Volta, Plinio De Martiis che poi diventerà il maggiore gallerista di Roma, giocano un ruolo decisivo la conoscenza di Images à la sauvette di Henry Cartier-Bresson, il fotolibro che diffonde internazionalmente uno specifico fotografico per l’arte, l’instant décisif, cioè la capacità di cogliere nelle cose della vita ciò che il solo occhio non sarebbe in grado di fare.
Decisiva è anche l’influenza dei grandi fotografi della leggendaria rivista Life, Eugene Smith soprattutto. Pinna non cerca l’arte come Giacomelli, che guarda più alla pittura, all’incisione, alla poesia. Cerca l’informazione di cui l’arte può essere, dato che viene resa attraverso un linguaggio espressivo, un’eventuale conseguenza. Di fare arte gli capita spessissimo, fin dalle sue prime prove. La mostra di Castellabate si sofferma sulla materia più importante trattata da Pinna nei dieci anni iniziali e più di carriera (1952-1963), le varie facce di un Sud Italia che diversi intellettuali di un certo indirizzo si decidono in quel momento a riscoprire, dopo un ventennio in cui il fascismo aveva sostanzialmente negato il suo disagio. Il principale fra questi intellettuali è Ernesto de Martino, maggiore antropologo italiano del secolo scorso, che si porta dietro Pinna fin dalla spedizione del 1952 in provincia di Matera, volendo conoscere da vicino una cultura popolare rimasta incredibilmente arcaica in cui la magia e il rito assumevano un peso notevolissimo nello scongiurare ciò che lo studioso definisce «crisi della presenza», il senso esistenziale di disorientamento che l’uomo primordiale avverte davanti alle grandi minacce del destino quali la sventura, la malattia, la morte. Pinna seguirà De Martino anche in altre occasioni, in particolare nel 1956 lungo la provincia di Potenza e nel 1959 in una spedizione epica che in Salento riporta alla luce i residui del tarantismo, le pratiche esorcistiche con cui ci si liberava dall’influsso maligno del morso di un ragno, in realtà pretesto per simulare una pazzia in cui si riversava tutto il proprio malessere interiore. Finirà a incrinarsi il rapporto fra i due (Pinna non viene citato nella prima edizione de La terra del rimorso, il saggio di De Martino dedicato al tarantismo), ma il fotografo deve tantissimo alle esperienze di vita, di occhio e di mente che lo hanno messo a contatto con la gente più appartata e dimenticata del Sud, un mondo rimasto indietro nel tempo, con i suoi obblighi, le sue mentalità, le sue facce diverse rispetto a quelle delle città, fosse anche in un’Italia in piena ricostruzione come lo era in quel momento.
Un mondo per il quale Pinna avverte subito un trasporto paragonabile a quello di Pier Paolo Pasolini, come se miseria e arretratezza preservassero romanticamente dalla corruzione del mondo moderno. È questo rispetto, unito alla consapevolezza di essere un archeologo di un’umanità antica destinata a sicura sparizione, che induce Pinna a trasformare in colossi una nana che a Colobraro godeva fama di fattucchiera e una prefica di Pisticci che dopo avere pianto si mette a spettegolare (1952), oppure un contadino che si maschera da caprone in un singolarissimo rito pagano di dissacrazione del grano (San Giorgio Lucano, 1959). La fotografia, sosteneva Pinna, è un mezzo per dare volto alla storia delle persone, il vissuto che neorealisticamente si fa carne. Come nel caso esemplare di quella giovane moglie di pescatore a Bagnara Calabra (1953), stretta al suo bambino, che non ha più visto tornare il marito dal mare, ma ancora lo aspetta. Pinna crede nella fotografia come forma di denuncia, vorrebbe smuovere le coscienze, ma commuove quando riserva attenzione a donne e bambini, i punti più vulnerabili anche delle società arcaiche di cui è testimone estremo, che sono vittime ricorrenti dello sfruttamento del lavoro (Le raccoglitrici di olive, 1957, e di gelsomini, 1963, in Calabria). Il lavoro, a cui è dedicata una sezione della mostra (le altre sono Genti, Rituali e Lutti), è la misura del livello di una civiltà, ma non sempre nobilita l’uomo, semmai è l’uomo a nobilitarlo quando in esso si riconosce, anche nelle propaggini che annunciano l’avvento allo stesso modo auspicabile e temibile dell’industrializzazione (Gli operai di cantiere a Palermo, 1963). E poi c’è la Sardegna, che per Pinna è un discorso a parte, la ricerca personale di un’identità con un popolo lasciato troppo presto che confida nell’orgoglio delle tradizioni, nella continuazione di un modello umano, dalla scorza dura e generosa, che intravede soprattutto in Barbagia.
Un Sud dolente e perduto, se non fosse che problemi come lo sfruttamento del lavoro sono ancora all’ordine del giorno. E allora la commozione si fa indignazione.