L’Italia si cucina il mondo. Chi ha vinto davvero (e chi rosica)

  • Postato il 20 dicembre 2025
  • Di Panorama
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Ripartiamo da qui: «Se non si ha la pretesa di diventare un cuoco di baldacchino non credo sia necessario, per riuscire, di nascere con una cazzaruola in capo; basta la passione, molta attenzione e l’avvezzarsi precisi: poi scegliete sempre per materia prima roba della più fine, chè questa vi farà figurare». È l’incipit de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene che Pellegrino Artusi – il primo codificatore della cucina borghese e unitaria in Italia anche se nel suo libro sono del tutto assenti le ricette del Meridione – arricchisce con altre tre annotazioni: guardatevi dai libri che parlano di cucina, esercitatevi e sappiate che la cucina «è una bricconcella, ma può darci grandi soddisfazioni quando riuscite». È a questa prassi gastronomica, che si fa stile di vita, corredo culturale e di sentimenti, che l’Unesco ha riconosciuto il titolo di patrimonio immateriale dell’umanità.

Sul carro dei vincitori, che sono prima di tutto le cuoche e le famiglie italiane, i contadini, gli artigiani dei salumi, del pane, della pasta, i macellai e gli ortolani, ci stanno saltando tutti: per primi i critici enogastronomici che hanno affossato le trattorie per esaltare le stelle, gli stellati stessi che a forza di basse temperature, di sferificazioni, di giochi da piccolo chimico hanno trasfigurato il menù degli italiani – parlare di cucina italiana è infatti un azzardo – per farlo diventare una sorta di spettacolo.

Era curioso notare come dopo il pronunciamento del 10 dicembre, quando a Nuova Delhi il comitato intergovernativo Unesco ha detto sì, il circo Barnum della comunicazione (sovente a pagamento) legata ai ristoranti stellati si sia data da fare per dimostrare che loro sono gli alfieri di questa cucina.

Sono gli stessi che, contro la tradizione, andavano dietro a Ferran Adrià al grido di «tutto è chimica» per darsi un tono. Chi scrive per molti anni redasse una guida che si chiamava il Mangiarozzo (edizioni Newton Compton, non è più in commercio dunque niente auto-pubblicità) che aveva una premessa per i lettori: vi dico che quelle qui recensite (erano 1.500) sono tutte tavole buone, ma quanto sono buone spetta a voi stabilirlo. I ristoranti dovevano essere storici, avere una conduzione familiare, fare cucina di territorio con un legame specifico con l’agricoltura di prossimità e avere un prezzo accettabile. Fu la riscossa delle trattorie.

Ora anche gli inventori della “spuma di mortadella”, che sarebbe acqua distillata e mortadella, poi frullata con formaggio e montata a gas come si fa con il seltz, vanno magnificando il panino con la mortadella. Sarebbe però riduttivo immaginare il riconoscimento Unesco solo come una questione gastronomica. Anzi è una questione antropologico-culturale, che ha sostanziose ricadute economiche e che però oggi porrà nuovi obblighi: chi controlla la qualità e l’aderenza al canone Unesco di ciò che viene servito in tavola? La motivazione che è stata data a Nuova Delhi ammette poche deroghe. Così recita: «La cucina italiana è patrimonio mondiale dell’umanità perché va oltre i piatti, rappresentando una forma di vita, un’identità culturale e un modello di socialità, sostenibilità e diversità. I motivi principali includono la trasmissione di saperi e affetti tra generazioni, l’equilibrio tra uomo e ambiente (biodiversità, anti spreco), la convivialità che unisce comunità e famiglie, e il legame profondo con i territori e i loro prodotti». È la prima volta che avviene. Curioso, o forse necessario, notare che questa motivazione ricalca il pensiero di un grande francese, Jean Anthelme Brillat-Savarin, che ne La fisiologia del gusto (quest’anno cadono i 200 anni dalla pubblicazione) avverte: «La gastronomia è la scienza che si occupa dell’uomo in quanto egli si nutre».

Curioso notarlo nell’anno in cui la Guida Michelin toglie ogni stella a Gianfranco Vissani e ad Arnaldo La clinica gastronomica di Rubiera che l’ha avuta per 66 anni. Sono i ristoranti dove si pratica la più alta cucina anti francese. Perché la disputa per molti è solo una questione di ricchi premi e cotillons, ma sotto c’è ben altro. Ne sa qualcosa la Nestlé che con la San Pellegrino sponsorizza il World’s Best 50 restaurants per conquistarsi nuovi mercati e finisce per premiare peruviani o finnici. Così vedere la cucina italiana che non è unitaria, ma è la sommatoria di mille e mille ricette, diventare patrimonio dell’umanità a molti fa storcere il naso guardando al portafoglio. La ragione è che questo segna un primato culturale e di stile di vita del Belpaese e un fattore di concorrenza potente che ha ricadute su tutti gli altri settori economici. L’hanno ben riassunto tanto il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, orgogliosa di questo riconoscimento, quanto il ministro per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida, che ha lavorato con i colleghi degli Esteri Antonio Tajani e della Cultura Alessandro Giuli per arrivare al traguardo.

Ci sono in ballo 73 miliardi di export alimentare, il fatto che il 19 per cento dei ristoranti del mondo dice di offrire cucina italiana (e qui si porrà il tema di come controllarli), che nel mondo si vendono prodotti a imitazione di quelli tricolori per 130 miliardi e ci sta che ora i consumatori chiedano invece solo gli originali.

La macchina del fare da mangiare è gigantesca. I locali sono circa 200 mila, il fatturato va oltre i 100 miliardi e chi si ferma a considerare solo gli stellati soffre di strabismo: sono appena 393, l’offerta enogastronomica è la prima attrattiva turistica nel nostro Paese che è una fetta di altri 95 miliardi. Significa anche 13 mila agriturismi con cucina e un export agricolo da 24 miliardi su una produzione che sfiora i 70 miliardi ed è la prima al mondo per redditività per ettaro (3.500 euro contro i 1.800 della Francia).

Il riconoscimento Unesco diventa un punto di forza da spendere in Europa per chiedere la certificazione obbligatoria di origine, per imporre le clausole di reciprocità sui prodotti importati, per frenare i cibi ultra-processati e la deriva degli insetti e degli alimenti creati in laboratorio, per difendere le nostre produzioni come il vino da attacchi insensati. La sovranità alimentare del sistema Italia significa 730 miliardi di euro di fatturato e 4,5 milioni di posti di lavoro. Tutto questo passa ed è rappresentato dalla cucina italiana che non è solo un modo di preparare e consumare il cibo.

L’Italia è un pontile di mille e passa chilometri; nel corso dei millenni ci sono approdate merci e genti diversissime, ma tutto è diventato patrimonio identitario. Un esempio: il caffè. Da noi non se ne produce (ora un po’ e ottimo si fa in Sicilia dato il cambiamento climatico) eppure il nostro espresso è un must mondiale.

Accade perché l’Italia ha fatto della sua diversità un’originalità e perché ha fatto evolvere la tradizione senza obliare le radici. Lo testimonia la composizione del comitato promotore della candidatura Unesco: l’Accademia della cucina, la rivista La Cucina Italiana, la Fondazione Casa Artusi: i tre custodi del patrimonio gastronomico tradizionale. Il professor Pier Luigi Petrillo – è anche il presidente dell’Organo degli esperti mondiali dell’Unesco – su questo ha insistito, lui che all’Italia ha portato anche il riconoscimento dell’arte dei pizzaioli napoletani, delle viti ad alberello di Pantelleria e della cerca dei tartufi.

Come sostiene il ministro Lollobrigida, primo artefice di questo titolo, «questo riconoscimento produrrà una crescita eccezionale, porterà vantaggi in termini di occupazione e lavoro, rafforza la posizione del nostro Paese anche sul fronte della situazione internazionale e dei dazi, per due ragioni: una è la promozione che permette di avere garanzia di vendere di più e meglio; l’altra è il contrasto all’italian sounding che ci deruba di quel sapere che ci è stato tramandato ed è stato protetto per generazioni». 

Ora però viene il bello. Chi pensa ad adeguare i programmi degli istituti alberghieri? Chi a rafforzare le prerogative delle professioni gastronomiche? Perché c’è un problema molto serio: mancano le cuoche, mancano i cuochi, ma anche chi serve in sala. Il problema è dare maggiore protagonismo a questi mestieri. E del pari tutelare il legame con l’agricoltura che soffre d’invecchiamento: appena l’8 per cento delle imprese – più o meno 60 mila – è condotto da under 35 anche se sono le imprese più innovative. Questo riconoscimento pone l’interrogativo più forte: chi è pronto a scommettere che nella tradizione c’è il futuro? Per farlo ci sono almeno 730 miliardi di motivi.

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Panorama

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