L’Imam Berraou: «Non difendo l’Islam, racconto la nostra verità»

  • Postato il 23 dicembre 2025
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L’Imam Berraou: «Non difendo l’Islam, racconto la nostra verità»

“A tu per tu” con Ahmed Berraou, già Imam di Cosenza, referente dell’Ucoii Calabria e presidente del Daawa Odv sui temi che accendono il dibattito sull’Islam dopo le richieste di apertura di “moschee” negli Atenei calabresi


COSENZA – Un tavolino, due sedie. Al centro un infuso, aroma del Marocco, versato in bicchieri tradizionali. Musica araba, tappeti e bussola per la preghiera che punta dritta all’Arabia Saudita. Sul muro è proiettata la diretta con la Mecca. È un “a tu per tu” con Ahmed Berraou, già Imam di Cosenza, fondatore del Centro islamico della città e oggi referente dell’Ucoii (Unione delle Comunità islamiche in Italia) Calabria e presidente dell’associazione di volontariato Daawa Odv. Qui ci accoglie.

E qui inizia una chiacchierata intensa, uno scambio, un dialogo che in premessa accetta anche la scomodità: quella che scava, scende in profondità, senza pregiudizi e ha come obiettivo comune il raccontare la “verità”. La verità di una religione, quella musulmana, sulla quale spesso si accende il dibattito pubblico e politico italiano e che, anche alle nostre latitudini, ha negli ultimi mesi fatto discutere dopo i casi delle richieste di apertura di “moschee” nelle università di Catanzaro prima e di Cosenza poi. Una curiosità dopo l’altra, una domanda dopo l’altra: Ahmed non si scompone mai. Spiega, porta a sintesi e nel suo “Medio Oriente” di via Caloprese a Cosenza aiuta a comprendere, avvicinare e far convivere due mondi e due culture.

Ahmed Berraou, chi è l’Imam nell’Islam?

«L’Imam è colui che guida le preghiere, fa il sermone del venerdì. A livello locale viene scelto dalla comunità come guida spirituale. È colui che ha il più alto grado di conoscenza, sapienza delle norme dell’Islam, della giurisprudenza islamica. Insegna la religione, risponde alle domande sulla giurisdizione, sull’adorazione. E si occupa di mediare, di aiutare chi ha bisogno. Celebra i matrimoni, i funerali. Sono stato Imam della moschea di Cosenza per 15 anni. Ho fondato il Centro islamico di Cosenza, dopodiché mi sono occupato del sociale. Però la comunità non ha gradito questo passaggio. Ho fatto la lotta per i diritti dell’abitare, la lotta per i diritti dei lavoratori, sono stato anche nella Cgil. Così alla fine ho detto va bene, pensiamo anche a un cambio generazionale, portate voi la guida della moschea del centro islamico e io continuerò ad occuparmi di sociale. Perché c’è un vuoto in città. Non c’è una rappresentanza della comunità marocchina, musulmana, araba. Di chi si occupa di problematiche vere e non solo della religiosità».

Da quanto tempo è in Calabria?

«Dal 1995, sono 30 anni. L’associazione Daawa l’ho creata nel 2014. Mentre dal ’96 ho fatto l’Imam della moschea».

Dov’è la moschea di Cosenza? C’è ancora?

«Una volta erano tre “moschee” piccole. Ma è errato chiamarle “moschee”. Sono luoghi di culto, di aggregazione. Una moschea vera e propria non esiste. Esistono poche moschee in Italia, riconosciute. Il resto è garage, capannoni, posti inadeguati per fare la preghiera. Noi come comunità musulmana viviamo un degrado nel rispondere ai nostri bisogni. Soprattutto per quanto riguarda i luoghi di culto, i cimiteri, gli ospedali, il cibo, gli insegnamenti per i bambini. Abbiamo inizialmente allestito un piccolo garage vicino la Chiesa della Ss Croce. Poi abbiamo fatto qualche cambiamento. Ci siamo spostati. Siamo stati all’associazione Arca di Noè che era al centro storico, poi alla Cgil. Due anni li abbiamo trascorsi così. Poi nel ‘98 abbiamo affittato difronte le grandi Poste una specie di sotterraneo. Siamo stati lì più o meno per sei, sette anni. E poi c’è stata la crisi del 2008 e non abbiamo più potuto pagare l’affitto di 600 euro. Noi facciamo la colletta».

E cosa è successo?

«Allora con i ragazzi del Centro sociale ho esposto il problema e mi hanno detto “va bene, ci sono i capannoni sotto la Stella Cometa”, su viale Mancini. E sono andato personalmente a prendere il posto. Ma la comunità musulmana non ha riconosciuto questo cambio. C’è stato un dibattito nostro, interno. Ma lì non potevamo restare senza pagare l’affitto. Diventava un luogo occupato. Non avevamo scelta. Ho creato così il Centro islamico. Poi, dopo 5 anni, quelli che erano “contro” di noi sono arrivati. Ci siamo riuniti. Ma da lì hanno iniziato a non vedere di buon occhio il fatto che facessi l’Imam e mi occupassi contemporaneamente di sociale. Oggi lo guida un giovane senegalese, ha 28/ 29 anni, è bravo. Loro si occupano solo delle preghiere. Io curo tutto: il dialogo interreligioso, i rapporti diplomatici, il volontariato. Ho avuto anche il diploma all’Università di Padova come Imam riconosciuto a livello nazionale. Ho studiato la Costituzione italiana, la legge italiana. La storia italiana della Chiesa, le intese con le altre religioni. Abbiamo fatto questo lungo corso della durata di quasi un anno».

Ma quanti siete in regione?

«Credo attorno alle 35mila persone».

E a Cosenza?

«Tredicimila, nella provincia intendo».

Sul luogo di culto avete mai provato a chiedere aiuto alle istituzioni?

«Chiedo da più di 20 anni».

Cosa rispondono?

«Che non hanno posti. Quando c’è stata la tragedia di Cutro, in quel momento, ci hanno dato uno spazio cimiteriale all’interno del cimitero di Donnici. Però piccolino. Adesso in provincia si sta muovendo il “cimitero degli immigrati” a Tarsia. Con Franco Corbelli. Questo mese hanno ricominciato i lavori. Per il luogo di culto abbiamo un sacco di difficoltà. Anche perché si solleva sempre il problema politico: “Perché dovete dare spazi alla comunità musulmana?”. Ma noi vogliamo solo il riconoscimento. Per esempio, anche se noi troviamo un luogo e lo prendiamo in affitto, mica possiamo dire che è una moschea islamica. Perché non abbiamo un’intesa con lo Stato italiano. Eppure è la seconda religione in Italia».

Perché secondo lei?

«Perché non c’è la volontà politica di averla. Dicono che non abbiamo rappresentanze. Invece ci sono. C’è l’Ucoii, c’è la Federazione islamica. C’è la Comunità islamica italiana a Milano, ancora più radicata. L’Ucoii già nel ‘90 ha presentato la richiesta di un’intesa».

Ma se il problema della mancata intesa con l’Italia nasce da lontano, perché parla di volontà politica? Voglio dire, in questi anni si sono succeduti governi di sinistra e di destra e nulla pare essere cambiato. Mi sbaglio?

«In realtà con il governo precedente ci eravamo arrivati vicino. Abbiamo ottenuto anche la personalità giuridica per l’Ucoii. Ma adesso ovviamente ci sono difficoltà. Le comunità buddhiste hanno due intese. E se viene a mancare l’intesa qualsiasi cosa apriamo non viene riconosciuta come moschea, ma come associazione, un centro culturale. Nel centro culturale si può pregare, sì, ma si chiudono gli occhi. Ci sono solo 5 o 6 moschee riconosciute in Italia, come quelle di Roma, Ravenna, Brescia, Milano. Le altre sono più di 1500, ovviamente non riconosciute».

 E se più che di una volontà politica si trattasse di una distanza culturale? È una teoria plausibile secondo lei? Ad esempio, alcuni dicono: “perché aprire moschee qui se nei loro Paesi è difficile aprire una Chiesa”.

«Ma non è assolutamente vero. Ci sono Chiese in Marocco. Ovunque. Adesso anche in Arabia Saudita. Prima no. Perché è un luogo sacro. Come il Vaticano. Non puoi andare all’interno del Vaticano e fare la moschea. Lì c’è la Mecca, la Medina. Lì c’è la nascita dell’Islam. E’ il luogo dove è stata rivelata la religione musulmana. Il messaggio al mondo. In Marocco ci sono oltre 6, 7 cattedrali, non chiese. Cattedrali cattoliche grandi, belle. Possono pregare. Ci sono gli ebrei. Ci sono tutte le religioni. Sì, esiste un po’ di limitazione ai marocchini di convertirsi all’altra religione. Ci sono limitazioni nel fare proselitismo, nella diffusione. Ma in Italia comunque non si può usare il principio del “se voi non avete, noi non vi diamo”. Voi, l’Europa, l’Occidente proclama che tutti hanno il diritto ad un luogo di culto, il diritto di professare un’altra religione. I vostri limiti sono incostituzionali».

Quindi, mi corregga se sbaglio, lei dice: noi magari abbiamo delle regole più rigide, ma voi che vi dite democratici dovreste accoglierci. È corretto?

«Corretto. Dovete rispettare la Costituzione italiana. E lo Stato, tramite le intese, deve garantire e gestire la convivenza. Noi non possiamo sposarci in Chiesa».

E lei dove li celebra i matrimoni?

«Qui. Poi gli sposi vanno a festeggiare da qualche parte».

Parliamo della polemica sorta in Unical. Un gruppo di studenti islamici si è rivolto al collettivo Aula Studio Liberata chiedendo l’apertura di una “moschea” all’interno del Campus. Tra i motivi della richiesta c’è l’impossibilità di pregare tutti i giorni, l’inadeguatezza e la ristrettezza degli spazi perché, dicono, le donne non possono pregare con gli uomini.

«Richiesta corretta. La nostra preghiera ha delle regole. Si fa 5 volte al giorno. Nel luogo dove noi preghiamo non devono essere presenti statue, figure iconografiche. La raffigurazione per noi è vietata. Come disegni usiamo natura, astratto. Quando nacque l’Islam all’interno della Mecca c’erano 360 statue. Ogni giorno dell’anno aveva la sua statua. Poi Muhammad ha fatto come ha fatto Abramo. Ha distrutto le statue. Da lì nasce il divieto di rappresentazioni che “abbiano un’anima”. Perché è come se l’uomo nella “creazione” si paragonasse a Dio. È una legge islamica da rispettare. Come altre leggi che si trovano in altre religioni. Poi donne con uomini possono pregare insieme, solo che gli uomini devono essere avanti e le donne dietro. C’è un detto del profeta che dice “La migliore delle donne è quella che sta dietro e il migliore degli uomini è quello che sta avanti”. È una raccomandazione. Per rispetto».

Quello del rapporto con le donne nella vostra cultura è uno degli argomenti che più infiamma il dibattito pubblico. Ma com’è questo rapporto?

«Noi le donne le trattiamo con riservatezza. Non è come l’Occidente. Noi la rispettiamo la donna, non la guardiamo nelle sue bellezze, nei suoi piaceri, nel suo corpo. Cerchiamo di non entrare in questa sfera. Anzi, l’Islam ha una filosofia di “prevenzione” in tal senso».

“Protettiva” intende?

«Sì. Esatto. Però ci sono alcuni che hanno concepito male questo concetto, anche all’interno del mondo arabo, musulmano. Hanno mischiato le culture tribali con quelle religiose. Le bimbe spose per esempio da noi non esistono. Sono culture etniche, magari anche pre-islamiche. L’Islam ha sempre cercato di dare onore alla donna, dignità, di proteggerla. Di non mercificarla. Non sfruttare il suo corpo, la sua forza. È una differenza valoriale. Non di diritto. L’islam è la prima religione che ha riconosciuto la donna in ogni suo diritto».

Però, parliamoci chiaro, alcune donne saranno anche felici di portare il velo, di sposare un musulmano, di non truccarsi: ma per lei queste non rappresentano una restrizione della libertà personale per quanto nella vostra cultura è letta “a fin di bene”?

«Ci sono delle norme. È così. Se una donna vuole sposare un uomo il primo criterio è che deve essere musulmano. Se si sposa con un occidentale non riesce a rispettare la sua religione. Le faccio un esempio: nel periodo del Ramadan c’è l’astensione dall’avere rapporti. Se uno non è musulmano cosa vuole che se ne importi del divieto? Non potrebbe capire. Il velo non è repressione, è protezione».

E sulla poligamia?

«Per la poligamia ci sono delle condizioni strettissime. Devi avere la possibilità economica di mantenere tutte le donne e di non fare differenze tra una e l’altra».

Le donne l’accettano?

«Alcune sì e altre no. Ma non è obbligatorio, è una possibilità. Anche voi in Occidente avete la figura dell’amante. E l’amante qui non ha niente. Non ha diritti. È sfruttata. Perché non può avere la sua casa, poverina, suo marito? Anche al 50%».

E la donna può avere più uomini?

«No, non può».

Perché?

«Perché la natura umana è così. L’uomo è poligamo, la donna no».

E mi dica: se una donna viola le norme, cosa accade? Qual è la punizione? Quella che finisce nella cronaca nera?

«I delitti d’onore sono sempre esistiti. Anche qui in Italia. 50 anni fa qui in Calabria la donna mica era libera come adesso. Più o meno è la stessa cosa. Noi non siamo rigidi. C’è una frangia di mentalità più chiusa e intransigente, ma il 90% no. L’Occidente però vede solo il 10%. 2,7 milioni di musulmani in Italia: quanti sono quelli che hanno costretto le loro figlie a sposare un musulmano? 10? 100? Mille? Non è quella la mappatura dell’Islam. L’islam sono gli altri 2,7 milioni. La politica manipola anche certi tipi di narrazioni. Noi cerchiamo di rilevare queste cose. Il femminicidio in Italia ha una percentuale più elevata di quella che c’è in Marocco. Ciò vuol dire che la violenza sulle donne non ha alla base un motivo religioso. E questi fenomeni vanno combattuti insieme. L’Ucoii ha condannato i casi. Non vogliamo che queste storie siano attaccate alla nostra religione. Non è vero. E non è giusto. Chi dice il contrario vuol dire che del Sacro Corano non ha capito niente. E la stampa corre ad attaccare quell’interpretazione sbagliata della parola all’Islam, una religione millenaria, che ha portato al mondo la civiltà, l’algebra, la medicina, la filosofia. La civiltà occidentale è stata portata dagli arabi. Di questo però non parla mai nessuno. Che la prima università del mondo è stata fondata da Fatima, una donna marocchina, non lo sa nessuno. Io non difendo l’Islam. Io voglio togliere quella negatività con cui siamo raccontati. Voglio dire la verità».

Dire la verità è un obiettivo comune.

«Noi abbiamo aperto questo luogo anche per farci conoscere. Tanti italiani passano, entrano, fanno domande, vogliono capire, sapere. È questo il dialogo, l’interculturalità. Lo scambio».

Sugli omosessuali, così chiudiamo il cerchio: nelle battaglie Pro Palestina avete avuto il sostegno della comunità Lgbtqia+ italiana. Come convivono le due cose?

«Anche se non siamo d’accordo in certe idee possiamo esserlo in altre. Difendiamo insieme il diritto di un popolo di vivere. Noi siamo più vicini al capitalismo che al comunismo. Ma nel comunismo siamo vicini per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, i diritti sociali. Non è vietato essere omosessuali. È vietato l’esibizionismo, diciamo così. Ogni Stato ha le sue leggi. Il mondo musulmano è variegato. Se sbagli rispondi alle leggi dello Stato in cui ti trovi. Si tratta di non fare propaganda, non chiedere diritti. Nessuno ti tocca, nessuno ti fa niente. Poi, anche la Chiesa non riconosce l’omosessualità. Allora è repressiva anche la chiesa».

Lei ha parlato di “scambio”, ma a volte si parla di “processo di islamizzazione”. Quindi, è o non è in corso quella che alcuni chiamano “invasione”?

«Ma non credo proprio. Qui la nostra gente non sa come procurarsi da mangiare, non pensa a queste cose. L’Italia anzi deve ringraziare i migranti dato il calo demografico che ha. Tra pochi anni gli italiani saranno molti di meno. I migranti che stanno arrivando possono contribuire a portare lo Stato ad andare avanti».

A New York intanto ha vinto un musulmano, i partiti politici si stanno creando…

«E che c’è di male? Non è colpa dei musulmani. È un problema dei cristiani».

In che senso?

«I cristiani devono organizzare l’integrazione. Le politiche italiane probabilmente non hanno saputo gestire la problematica. La natalità dei cristiani, le politiche sull’immigrazione. Un esempio che magari un po’ può fare paura: a Reggio Emilia i musulmani sono così numerosi che alcune aule scolastiche sono solo musulmane».  

Quanti ne riuscite a convertire di cristiani?

«Pochi. In Italia mi pare circa 5.000 all’anno. In Calabria credo che non superino la ventina. Qui da me se ne sono convertiti 3. Leggono, i loro cuori si aprono e nell’Islam trovano le risposte alle loro domande. La maggior parte tra l’altro sono donne. Perché, appunto, come le dicevo, l’islam dà dignità alla donna».

Il famoso “cavallo di Troia”…  Oriana Fallaci le dice niente?

« Ride. I libri di Oriana Fallaci sono lì dietro, li ho letti».

Le sono piaciuti?

«Mah, molto polemica. Un po’ odiosa».

Ahmed, lei mi raccontava che con l’associazione Daawa fa un’opera di volontariato ammirevole: si occupa di italiani, di musulmani, di bambini, poveri, bisognosi, di storie di disagi sociali in città. Aiuta chiunque. Il tutto in maniera autogestita e autofinanziata. Concludiamo allora con un appello alle istituzioni. Cosa vuole dire loro?

«Noi siamo aperti anche a chi non sa dove andare, ospitiamo un paio di persone che non sanno dove dormire con questo freddo. In Calabria purtroppo c’è poco lavoro. Tanto sfruttamento. Come tutti i giovani calabresi che fuggono anche i ragazzi che arrivano non sanno che fare e dove andare. Le donne poi si occupano più che altro di servizi alla persona, lavorano nelle case. E sono sfruttate, anche sessualmente, ricattate, ci sono ritorsioni, un sacco di situazioni brutte. Non vengono pagate. Poi la nostra comunità non trova alloggio, non ci affittano le case. Anche se presenti le buste paga. Le agenzie nemmeno rispondono. Per questo abbiamo fatto la Consulta Intercultura, sperando che si risolvano queste problematiche, ma alla fine anche la Consulta è una passerella politica. Abbiamo cercato di strutturarci meglio, ma non abbiamo ascolto né accesso alle istituzioni. Tant’è che poi magari molti giovani preferiscono affidarsi ai trafficanti e non ai centri strutturati. Noi avremmo bisogno di tante cose: di un riconoscimento di un luogo di culto, di una scuola per bambini arabi, musulmani, per leggere il Corano, per imparare la lingua araba. Abbiamo bisogno di un cimitero nostro, non un piccolo spazio in un cimitero cristiano. L’opera che abbiamo fatto a Cosenza è una goccia d’acqua nel mare. Speriamo che quelli che ci saranno dopo di noi, sapranno continuarla, portarla avanti, rendendola anche migliore».

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