Lettera a un popolo di bambini mai nati

  • Postato il 14 giugno 2025
  • Di Panorama
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Cinquant’anni fa, nel 1975, Oriana Fallaci pubblicava la sua Lettera a un bambino mai nato, che ebbe sin dal titolo un successo straordinario. Il libro epistolare affrontava in modo appassionato i temi dell’aborto, della condizione femminile, la paternità sfuggente e l’incertezza di mettere al mondo un bambino in un tempo difficile; non sai, scriveva la Fallaci, se a farlo nascere o abortire gli fai un torto o un regalo. Ora è passato mezzo secolo e l’Italia è passata da uno dei Paesi più prolifici d’Europa a quello che fa meno figli: da anni i morti superano i nati e, come attesta l’Istat, gli ultraottantenni superano ormai i bambini sotto i dieci anni. Sicché a cinquant’anni da quella Lettera, i bambini mai nati sono diventati un popolo, e sono la maggioranza invisibile rispetto ai bambini già nati.

A lasciarli nel limbo degli increati ci ha pensato la contraccezione di massa, l’uso dei profilattici, e poi gli aborti, la diffusione di coppie sterili, alternative, omosessuali, o costituite da anziani, da donne non più fertili. Ma più di tutto ci ha pensato il rifiuto di volere dei figli, il rigetto della paternità e della maternità, e la diffusa motivazione che oggi è sempre più difficile mettere al mondo, in questo mondo, un bambino. Motivazione psicologicamente comprensibile se consideriamo la diffusione di fragilità soggettive, la precarietà dei rapporti, l’impegno lavorativo di entrambi i genitori; ma oggettivamente poco fondata se facciamo un paragone tra la fiorente natalità di altre epoche, in condizioni decisamente più difficili di quelle odierne.

Si figliava in società povere, si figliava in tempo di guerra, a volte con i padri al fronte, si figliava in famiglie numerose, monoreddito e in case piccole, inadeguate, sovraffollate, a volte in monolocali. Le società povere, capita anche ora, figliavano e figliano di più di quelle benestanti, dove le pretese di vita sono maggiori. Smettiamola di sentirci sull’orlo di una catastrofe, convinti di vivere nel peggiore dei mondi possibili; ogni epoca ha le sue croci e le sue delizie, sono semplicemente mutati i problemi, sono di tipo diverso rispetto a quelli dei nostri genitori e dei nostri predecessori. In realtà sono cambiate le nostre condizioni mentali, siamo decisamente più fragili e più esigenti. Non siamo più abituati alle rinunce, ai sacrifici, vogliamo vivere la nostra vita, prolungare la giovinezza, ci sentiamo figli permanenti. Poi, per carità, è sicuramente vero che non c’è mai stata in Italia una lungimirante politica di sostegno alla famiglia e alla procreazione, salvo sparuti, insufficienti incentivi, nell’assenza di strutture solide e di agevolazioni sociali. Ma questi temi li conosciamo ormai un po’ tutti. Lasciamo da parte allora la sociologia dei malesseri ed entriamo invece su un terreno assai più delicato, che riguarda il nostro rapporto con la vita, col mondo, con gli altri.

Partiamo da un’osservazione di ordine generale: quanto pesa quel popolo di bambini mai nati sull’avvenire del nostro Paese? Lo destina all’estinzione? Si può ritenere sufficiente, confortante, se non addirittura soddisfacente, la «sostituzione» di quel popolo di bambini mai nati con l’arrivo di flussi migratori, con le adozioni, il traffico di gravidanze artificiali e di uteri in affitto, o più brutalmente con la supplenza di umanoidi, automi e robot, guidati dall’Intelligenza artificiale? Ci soddisfa o ci consola questa prospettiva? O per dirla meglio, a contrario, non abbiamo nulla da obbiettare a questa situazione, non abbiamo nessuna voglia di reagire a questo scenario che si profila, non vogliamo tentare soluzioni diverse, provare a cambiare rotta, invertire la tendenza demografica e famigliare, favorire la natalità e proteggere la fertilità? Dobbiamo per forza adottare un nuovo fatalismo e accettare tutto come irreparabile e irreversibile, una rassegnazione che somiglia maledettamente al vecchio fatalismo che condannavamo nelle società arcaiche e religiose? È fatale che non nascano più figli, è fatale che i figli vadano a vivere lontano dai loro luoghi natii e dalle loro famiglie d’origine, è fatale che il limbo dei bambini mai nati sia più popolato delle culle nei reparti di ostetricia?

Ma il discorso si fa ancora più toccante quando riguarda la nostra sfera intima, personale, di vita. Vediamo intorno a noi famiglie un tempo numerose che si stanno via via assottigliando e che nel giro di una generazione o due sono destinate a estinguersi. I pochi figli nati negli ultimi decenni non mettono a loro volta al mondo altri figli e spesso vanno via, lontano. Viviamo davvero, sotto il profilo demografico, una società senza eredi, come avevo denunciato lo scorso anno in un saggio letterario. In questa luce, è sempre più frequente la presenza di nonni senza nipoti: hanno, abbiamo, ormai l’età per avere figli dai nostri figli ma per una serie di fattori prima accennati e facilmente comprensibili, non abbiamo nipoti su cui proiettare la nostra aspettativa di vita, a cui dedicare le nostre attenzioni, in cui sublimare il nostro declino e vivere il cammino verso la conclusione senza nemmeno l’unica forma di immortalità terrena che era da sempre in atto, quella che potremmo definire transmortalità, ovvero il ricambio, il passaggio di testimone, la sostituzione dei nonni coi nipoti. E a molti di noi che pure ebbero figli, viene così voglia di aggiornare la lettera della Fallaci, indirizzandola al nipote mai nato. Abbiamo ricordi d’affetti perduti, non abbiamo speranze d’affetti nascenti. Nonni di nessuno.

Autore
Panorama

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