L’estate del mini dollaro: Trump e la svalutazione strategica per spingere l’economia Usa e colpire la Cina

  • Postato il 17 luglio 2025
  • Di Panorama
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In God we trust, volgarizzandolo si potrebbe dire: che Dio ce la mandi buona. Lo stampano da oltre 160 anni sul biglietto da un dollaro che è con la bandiera il vero simbolo dell’unità americana e anche l’unità di misura del globo. Donald Trump vuole cambiare le carte in tavola: dal dollaro che misura il mondo a un mondo a misura di dollaro. Per questo sta facendo la guerra alla globalizzazione a colpi di dazi per tornare alle aree d’influenza tagliando l’erba sotto i piedi ai cinesi – i veri avversari del tycoon – che hanno molto lucrato sulla moneta americana a cui hanno fatto sopportare gli oneri di regolare le transazioni mentre loro producevano in yuan.

La svolta autarchica che il capo del Maga (Make America great again che letteralmente vuol dire fare l’America di nuovo grande) sta imprimendo agli Usa è sì espressa dai dazi (minacciati, ritrattati: l’ultimo capitolo riguarda l’Europa che dovrebbe “beneficiare” di un 10 per cento di tariffa doganale aggiuntiva) ma la vera sfida è sul dollaro. Stephen Miran, economista eretico, ha usato questa formuletta: per fare grande l’America serve un dollaro piccolo. Miran la vede così: il fatto che il dollaro sia la valuta di riserva del mondo è un doppio danno: lo tiene costantemente sopravvalutato e frena l’export delle industrie a stelle e strisce e gli americani, avendo i dollari in tasca, comprano a buon mercato quello che viene dall’estero e soprattutto dalla Cina: sui porti americani sbarcano auto, acciaio, prodotti enogastronomici, moda come e più di prima.

In maggio la bilancia commerciale ha avuto un deficit di 71,5 miliardi di dollari: le esportazioni sono scese a 279 miliardi, le importazioni sono rimaste stabili 350,5 miliardi di dollari. Il che significa a fine anno mille miliardi di deficit commerciale, minore occupazione, minori entrate fiscali e più debito. Per rimediare Miran pone l’esigenza di una svalutazione del dollaro fino al 25 per cento, contando sul fatto che per energia e molte materie prime gli Stati Uniti sono autosufficienti.

La ricetta contro lo scetticismo dei premi Nobel qualche risultato lo dà: il Pil è in crescita del 3,8 per cento contro le previsioni del 2,2, in giugno si sono creati 147 mila nuovi posti di lavoro e l’inflazione (grazie proprio al mini dollaro) resta stabile al 2,4 per cento con Wall Street che infrange ogni record. Miran suggerisce a Trump, e questo spiega le mosse del presidente Usa in sede Nato, che il superdollaro è stato costruito attraverso il ruolo che gli Stati Uniti si sono assunti di “gendarme del mondo”: per questo è necessario che l’America riduca il suo impegno militare. Dopo i dazi, dopo la dichiarazione di morosità degli alleati per la difesa, dopo la svalutazione strisciante del dollaro, deve arrivare un accordo, che include anche a Cina, per regolare gli scambi monetari. Una “Bretton Woods 5.0”: se nel 1971 Nixon dichiarò l’inconvertibilità del dollaro in oro, Trump con l’accordo di Mar a Lago vorrebbe dichiarare che il dollaro non è più la moneta del mondo.

Un precedente c’è: è l’accordo del Plaza – fanno 40 anni esatti – che Ronald Reagan strinse con l’allora G5 (Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna) per una svalutazione concordata del dollaro. Le obiezioni a questa strategia si sprecano. Il Nobel Paul Krugman – ha liquidato come un pamphlet il saggio di Miran dal titolo User’s Guide to Restructuring the Global Trading System (Manuale per una ristrutturazione del sistema globale del commercio) – sostiene che non c’è alcuna possibilità di un simile accordo. Barry Eichengreen sul Financial Times ha osservato: «L’ininterrotto predominio del dollaro è nei fatti – l’America vale quasi un terzo del Pil globale e regola le transazioni finanziarie – e nella forza delle relazioni che gli Usa hanno». Trump, però, ribatte – come ha detto nello Studio ovale maltrattando Volodymyr Zelensky – «You don’t have the cards», cioè il gioco lo conduco io.

Il capo del Maga in ogni caso ha bisogno di una Federal Reserve compiacente, perciò apostrofa Jerome Powell che guida la Banca centrale (ha ancora un anno di mandato) su una rotta contraria a quella di Trump. Se riesce il disegno di rivitalizzare la produzione americana grazie al mini dollaro che spinge l’export e in virtù del combinato disposto svalutazione-dazi a frenare l’importazione, il presidente Usa ha bisogno di sostegni allo sviluppo con tassi molto bassi che servono a stimolare consumi interni e investimenti. E qui c’è un passaggio strettissimo della “Trumpnomics”. Col varo del Big Beautiful Bill (conti da favola!) il presidente taglia le tasse al ceto medio – quello rovinato dalla caduta della Rust belt dove c’erano le grandi fabbriche narrata da JD Vance in Elegia americana, il libro che gli è valso la vicepresidenza – ma porta il debito verso i 40 mila miliardi di dollari! Ha bisogno di vendere bond e per questo Powell non vuole abbassare i tassi.

Un altro economista “eretico” sodale di Trump, Peter Navarro, al contrario proclama: «Su dazi e dollaro non c’è un negoziato, stiamo addebitando agli altri ciò che troppo a lungo ci è stato addebitato». Navarro per Elon Musk è un idiota e per la verità ha qualche tratto di singolarità: scrive saggi sotto pseudonimo – Ron Vara – per elogiare i suoi studi. Tuttavia una cosa gli americani l’hanno capita bene: «Solo i cinesi possono trasformare una culla in un’arma letale, la batteria di un cellulare in una scheggia che trafigge il cuore». Perciò America first è convinta che il mini dollaro sia l’arma letale contro gli avversari commerciali e la disoccupazione.

La svalutazione del biglietto verde pone però al resto del mondo seri problemi. Ha perso contro euro circa il 13 per cento dall’inizio dell’anno e questo incide ancor più dei dazi. Al mini dollaro la Cina cerca di reagire svalutando il Renminbi, la sua moneta che vuol far adottare a tutti i Paesi Brics per sviluppare un pagamento alternativo delle materie prime (dalle terre rare ai prodotti agricoli) nel circuito Africa-Sud America-Sud Est asiatico-Russia, ma l’ultimo vertice di tre settimane fa a Brasilia è andato malissimo: non c’erano nel Xi Jinping né Putin.

L’Europa e segnatamente la Bce, incerte, stanno a guardare. Da Sintra, dove a fine giugno si sono ritrovati i banchieri centrali, Christine Lagarde ha confermato che sui tassi sono possibili altri tagli perché l’inflazione si mantiene attorno al 2 per cento, ma pare incapace di fronteggiare lo scenario nuovo del mini dollaro che per noi ha solo un vantaggio: ci fa pagare meno petrolio e gas e le materie prime, ma ci blocca l’export; significa andare verso la deflazione, verso minore occupazione e minori investimenti. E anche minori flussi turistici, uno dei pilastri del made in Italy, dopo lo sboom dell’auto e della moda.

Una contrazione di ciclo economico è già misurabile in Francia e in Germania. Il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta preme per gli eurobond per fronteggiare lo shock dei dazi e del mini dollaro. L’idea fa il paio con quella che circola nella Commissione di Ursula von der Leyen di usare parte dei fondi del Pnrr per attutire il colpo alla produzione. Sinora, però, la Bce non si è minimamente preoccupata di riequilibrare il tasso di cambio euro-dollaro, né di avere una politica monetaria. Lo strumento principale per farlo è abbattere i tassi anche a costo di avere un po’ di inflazione, convincendo la riottosa tedesca Isabel Schnabel – sta in Banca centrale europea come cane da guardia della Lagarde – che quella è la strada e del resto lo stesso Powell, in risposta a Trump, ha detto che se non ci fosse la “guerra” dei dazi lui il saggio d’interesse americano lo avrebbe già tagliato.

Si tratta, dunque, di una partita davvero dura e molto lunga quella che si gioca attorno al biglietto verde. E a spiegarlo ci sono i dati reali. Il dollaro, infatti, è la moneta del mondo: su quasi 12.400 miliardi di riserve valutarie a garanzia del commercio mondiale poco meno di 7 mila sono in dollari (l’euro vale soltanto 2.200 miliardi, la moneta cinese 0,25 miliardi!) e anche  nei pagamenti interbancari il biglietto verde copre oltre il 50 per cento delle transazioni (l’euro il 22 per cento, lo yuan il 3,8 così come lo yen). E forse su una cosa Trump quando manda l’avviso di garanzia sui dazi ai governi ha ragione: «You don’t have the cards».

Autore
Panorama

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