L’esordio fotografico di Fabrizio Catalano. Un regista  fuori dagli schemi. L’intervista

  • Postato il 9 settembre 2025
  • Editoriale
  • Di Paese Italia Press
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Roma, 9 sett. 2025  – Un’esposizione intensa, autentica, in cui l’immagine si fa racconto e testimonianza, specchio del pensiero indipendente e della sensibilità estetica di un autore “irregolare”.

Per la prima volta, Fabrizio Catalano, regista, autore teatrale intellettuale poliedrico,  espone pubblicamente le sue fotografie in una mostra allestita in uno spazio espositivo nel cuore di Roma.

Il percorso d’arte alla Borgo Pio Art Gallery presenta una selezione di scatti inediti  non ritoccati, raccolti in decenni di viaggi tra paesaggi e orizzonti intorno al mondo.
Una mostra – visitabile fino a gennaio 2026 – che unisce poesia visiva e impegno civile, nello spirito libero e anticonformista di una delle voci più originali della cultura italiana contemporanea.

Con alle spalle una carriera trentennale, Fabrizio Catalano è noto per il suo impegno nel teatro e nel cinema, dove ha firmato regie ispirate a grandi opere letterarie e civili. Tra queste si distingue “Todo modo”, trasposizione teatrale del celebre romanzo di Leonardo Sciascia,  figura centrale nella cultura italiana del Novecento, che di Catalano fu il nonno. Opera che denuncia il potere corrotto e l’ambiguità morale, oggi più che mai  attuale.  Non meno significativa è la messinscena de “La scomparsa di Majorana”, dove il mistero della sparizione del fisico siciliano diventa riflessione etica e politica.

Tra i recenti lavori la docufiction “Irregular”, girata in Bolivia emerge tra i progetti cinematografici di analisi sociale  più significativi di Fabrizio Catalano. La pellicola indaga le crisi della società contemporanea in un paese dove  – come scrisse la giornalista Maria Pia Farinella  già capo redattore Rai  –  “realismo magico e dimensione spirituale dell’esistenza si intrecciano negli accadimenti quotidiani”.

Fabrizio Catalano con il nonno Leonardo Sciascia

Nel saggio Farinella, si sofferma con l’abilità che le è consueta, anche sul legame profondo tra il regista e  Leonardo Sciascia il nonno: “ un nonno così speciale e così normale” e come in Bolivia Catalano abbia trovato “una dimensione umana possibile”. Un profilo tracciato con cura e lucidità che restituisce al lettore la complessità del regista e il legame profondo tra memoria, eredità e impegno professionale.

Intellettuale eclettico, Catalano appassionato di Philippe Ariès, medievista francese e pensatore del tragico è anche traduttore della  poesia simbolista dal francese. Recentissima la prima versione italiana de “Les chanson d’Ève” (La canzone di Eva) di Charles Van Lerberghe, musicata da Fauré.

Ma è proprio attraverso la fotografia che oggi Catalano sembra voler rivelare un altro lato di sé. Insieme a percorsi espositivi di autori diversi, la mostra a Borgo Pio Art Gallery,  situata  a due passi dal Vaticano, si configura come un viaggio visivo e interiore  dove lo sguardo di Fabrizio Catalano “cacciatore di nubi”  attraversa paesaggi, luci e silenzi, tentando di catturare frammenti di verità e bellezza. Con questa esposizione l’autore  prosegue il percorso epistemologico diretto ad interrogare il nostro tempo con la delicatezza di un’artista ma pure con disincanto com’è proprio di Catalano,  confermando  il suo ruolo di osservatore  indignato ma mai rassegnato, sempre alla ricerca di un linguaggio che sappia restituire dignità alle idee e libertà al pensiero.

Abbiamo incontrato il regista  per parlare di questa nuova avventura visiva, del suo legame con la fotografia e del fil rouge che unisce il suo lavoro tra pensiero critico e arte.

Fabrizio Catalano, questa è la sua prima mostra fotografica. Cosa l’ha spinta a compiere questo passo ora, dopo tanti anni di lavoro in altri ambiti letterari e di indagine sociale ?

“Per decenni non ho mai valutato la possibilità di esporre le mie fotografie. Per me la fotografia era un terreno di gioco, uno spazio per sperimentare. Ricordo che da ragazzo, durante un’eclissi parziale di sole, scattai delle immagini in cui i colori sembravano risucchiati, quasi spettrali. Mi ricordavano, in modo ingenuo ma suggestivo, i disegni di Léon Spilliaert, quel pittore belga che mescolava carboncino e inchiostro di china. Sono cresciuto circondato da fotografi, anche noti: a casa dei miei nonni materni passavano in tanti. Mio padre stesso ha scattato foto poi pubblicate. Ma per me, inizialmente, era solo un modo per immaginare inquadrature da cinema”.

E quando ha iniziato a considerare la fotografia come un mezzo espressivo autonomo?

” Durante gli anni al Centro Sperimentale di Cinematografia. In un’esercitazione ci diedero una macchina fotografica con rullino, sette scatti a testa. Io fui l’unico a ritrarre esseri umani: sette ragazze che studiavano recitazione. I ritratti erano vagamente sottoesposti, volevo ricreare quella luminosità ovattata delle pitture olandesi del Seicento. Poi, negli anni successivi, ho continuato a fotografare: volti, corpi, paesaggi. Ma sempre seguendo un’ossessione precisa: la luce. E da lì, inevitabilmente, i cieli sono diventati un’attrazione continua.

Nella mostra alla Borgo Pio Art Gallery sono esposti anche cieli di luoghi lontani.3 Ci racconta questa ricerca?

” I cieli sono diventati per me quasi una necessità espressiva. Li ho cercati ovunque: in Bolivia, Ciad, Madagascar, Sicilia, ma anche dalle finestre di casa mia a Roma, dove ho la fortuna di avere una visuale libera da edifici. Mi definiscono un “cacciatore di nubi”, ed è un’immagine che accetto volentieri. Perché in quelle forme effimere, cangianti, c’è qualcosa di poetico e allo stesso tempo lucido: raccontano un mondo fragile, sorprendente, che resiste alla banalità e all’omologazione”.

Tra le immagini in mostra, un ritratto a lume di candela. Chi è la protagonista e qual è la storia dietro quello scatto?

“È Fátima Lazarte, attrice con cui ho girato il film Irregular in Bolivia. Quel ritratto non era previsto, è nato durante le riprese, con la sola luce di una candela. C’era una vibrazione intima, quasi pittorica. Mi affascina cogliere la luce sul volto umano, nei suoi passaggi più delicati. In quel caso, la scena sembrava uscita da un quadro caravaggesco. Anche questa immagine è in mostra alla galleria”.

Il suo percorso, però, non si ferma alla regia o alla fotografia. È anche autore di saggi, traduttore e scrittore. Come si integrano queste esperienze?

“Tutto nasce da un’attenzione per la parola e  il dettaglio, che ho ereditato anche dal mio lavoro sul pensiero simbolista e visionario. Ho tradotto dal francese autori come Rodenbach, Verhaeren, Villiers de l’Isle-Adam e Van Lerberghe. Proprio quest’ultimo è l’autore di La canzone di Eva, un poema di rara bellezza che ho pubblicato in prima edizione italiana. Era stato musicato da Gabriel Fauré e altri grandi compositori. Tradurre questi testi è stato, per me, come restituire loro la luce originaria”.

Il legame con suo nonno, Leonardo Sciascia, ha avuto un peso nel suo percorso artistico?

“Immenso. Ho portato in scena alcune delle sue opere più emblematiche, come Todo modo e La scomparsa di Majorana. La drammaturgia, in quei casi, è diventata uno strumento per interrogare la giustizia, il mistero, la verità. Temi centrali nella sua produzione letteraria. Ho sempre cercato di trasformare quelle storie in uno specchio del nostro tempo, un invito alla riflessione politica e civile.

Lei parla spesso della necessità di “vedere ciò che gli altri non vedono”. Che cosa intende esattamente?

” Qualche tempo fa, alla Piramide Cestia, vidi un gheppio appollaiato su un fianco della struttura. Mi fermai sul marciapiede a guardarlo. Ero curioso di vedere se qualcuno si sarebbe fermato, almeno per capire cosa stesse osservando questo “scimunito”, come direbbe Sciascia. Nessuno si è fermato. Nessuno ha nemmeno rallentato. Quella scena, nella sua semplicità, era una rappresentazione plastica di un’umanità che marcia ignara verso il baratro. Per me, la poesia dei piccoli momenti può ancora salvarci. Ma dobbiamo imparare a guardare”.

La sua mostra si inserisce in un contesto artistico molto variegato. Cosa significa per lei esporsi oggi, nel panorama contemporaneo?

“Significa assumersi una responsabilità. In un mondo in cui tutto viene velocemente consumato e dimenticato, esporsi con opere che non cedono alla manipolazione è un atto radicale. Gli scatti che ho scelto raccontano un mondo che resiste: fragile, sì, ma carico di senso. E credo che sia ancora possibile un’arte che si muove tra la parola, l’immagine, la memoria e l’impegno civile, senza rinunciare alla bellezza”.

Con questa prima mostra fotografica, Fabrizio Catalano si conferma una delle voci più originali e indipendenti della scena culturale italiana. Capace di spaziare con coerenza tra cinema, teatro, letteratura, traduzione e ora anche fotografia, il suo sguardo non smette di cercare e di interrogare. La mostra è un viaggio visivo e interiore, un invito a rallentare, osservare, pensare. Perché, come suggerisce l’autore , è “nella poesia dei dettagli che forse risiede ancora una possibilità di salvezza”.

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Borgo Pio Art Gallery

via degli Ombrellari, 2 Roma

Mostra Fabrizio Catalano finissage gennaio 2026

@Riproduzione Riservata

Mimma Cucinotta

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