L’entanglement: l’inconsapevole sintonia elettiva

  • Postato il 27 ottobre 2024
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L’entanglement: l’inconsapevole sintonia elettiva

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Entanglement o sintonia elettiva: tutte le volte che ci è capitato di conoscere le cose prima che accadano o di sentirci connessi a qualcuno. Nella fisica c’è un fenomeno chiamato «entanglement quantistico». È ipotizzabile che le nostre stesse particelle possano intrecciarsi con quelle degli altri quando creiamo un legame forte?


Quante volte ci è capitato di provare la sensazione di conoscere le cose prima che accadano, o di sentirci stranamente connessi a qualcuno?
Oppure di fare sogni premonitori. Per non parlare di situazioni nelle quali stiamo per mandare un messaggio o telefonare a qualcuno e un attimo prima quel qualcuno ci contatta, come per magia? Forse tutto ciò non è del tutto casuale, anche se non è così facile capire il meccanismo. In fondo, molto prima che la fisica assurgesse a disciplina in grado di spiegare moltissimi fenomeni naturali, in un breve e asciutto testo filosofico scritto 18 secoli fa in India  e divenuto classico di riferimento della filosofia buddhista dall’impossibile titolo  Mulamadhyamakakarika, tradotto in seguito in vari modi, fra i quali I versi fondamentali del cammino di mezzo, Nagarjuna aveva espresso il suo pensiero, centrato sull’idea che nulla abbia esistenza in sé.

Per il pensatore indiano, tutto esiste solo in dipendenza da qualcos’altro, in relazione a qualcos’altro. Il termine usato da Nagarjuna per descrivere questa mancanza di essenza propria è  vacuità  (sunyata). Le cose sono vuote nel senso che non hanno realtà autonoma, esistono grazie a, in funzione di, rispetto a, dalla prospettiva di qualcos’altro. Tutto ciò, appunto, ben prima che qualsiasi conoscenza scientificamente certa vedesse la luce. Ma quando proviamo quelle sensazioni appena descritte, allora, siamo di fronte a fenomeni paranormali o si tratta invece, appunto, di eventi scientificamente spiegabili? La risposta, come in tutte le cose complesse e sconosciute, non è ovviamente né facile né tantomeno scontata. Siamo in un momento di grandi lavori in corso, da questo punto di vista, anche se alcune cose cominciano, pian piano, a diventare chiare. Vediamo in che modo, partendo proprio dalla disciplina scientifica per eccellenza.
Nel mondo della  fisica quantistica, c’è un fenomeno chiamato entanglement quantistico.

L’entanglement si verifica quando due particelle separate si legano così fortemente che ciò che accade a una influisce sull’altra. Anche se vengono separate da migliaia di chilometri. Prima riflessione: anche gli esseri umani sono fatti di minuscole particelle subatomiche. È quindi ipotizzabile che le nostre stesse particelle possano intrecciarsi con quelle degli altri quando creiamo un legame forte, come per esempio l’innamoramento? Albert Einstein ha chiamato questa possibilità azione spettrale a distanza (spooky action at a distance). E potrebbe essere il motivo per cui abbiamo conoscenze apparentemente inspiegabili oppure rimaniamo emotivamente connessi alle persone anche dopo anni di separazione.
Nel campo della fisica, l’entanglement quantistico è un fenomeno ben consolidato e sperimentalmente verificato. Si riferisce alla situazione in cui due o più particelle diventano strettamente correlate. In modo tale che lo stato di una particella non può essere descritto indipendentemente dallo stato delle altre. Anche quando le particelle sono appunto separate da grandi distanze.

Ma si può estendere questo concetto anche a livello del nostro cervello? Bisogna avventurarsi in un campo di ricerca che tenta di conciliare la meccanica quantistica con le neuroscienze. Ma che toccherà poi anche altre scienze umane, fra le quali la sociologia, per cercare di comprendere se esista anche una sorta di entanglement collettivo, in qualche modo societario. Partiamo dalla considerazione di alcuni ricercatori, i quali hanno ipotizzato che il cervello possa utilizzare processi quantistici per eseguire calcoli complessi e che potrebbe esistere una forma di entanglement tra neuroni o tra particelle subatomiche all’interno dei neuroni. In che modo? In questa prospettiva, una delle teorie più discusse è quella dei microtubuli. Strutture all’interno delle cellule neurali, che secondo alcuni potrebbero essere in grado di mantenere stati quantistici coerenti e di sfruttare l’entanglement per elaborare informazioni.
Chi non è convinto di questa ipotesi utilizza il concetto di decoerenza, ovvero il rapido collasso degli stati quantistici a causa dell’interazione con l’ambiente. Poiché il cervello è un ambiente caldo e umido, sarebbe difficile mantenere stati quantistici coerenti per periodi di tempo significativi. Va ribadito che si tratta finora solo di ipotesi. In quanto allo stato attuale delle cose non ci sono prove sperimentali definitive che dimostrino l’esistenza di fenomeni di entanglement quantistico nel cervello umano.

La misurazione di tali effetti a livello biologico è estremamente complessa e richiede tecnologie avanzate che sono ancora in fase di sviluppo. Certamente, se l’entanglement nel cervello fosse dimostrato, potrebbe rivoluzionare la nostra comprensione della cognizione e della coscienza. Aprendo la strada a nuovi paradigmi di computazione basati su principi quantistici. Comprendere meglio questi fenomeni, fra l’altro, potrebbe portare a nuove terapie per disturbi neurologici e psichiatrici, attraverso l’applicazione di principi quantistici alla biologia del cervello. Siamo ancora un campo di studio speculativo e in fase iniziale. Molte delle ipotesi richiedono ulteriori ricerche e prove empiriche per essere convalidate.
La comprensione completa di come la meccanica quantistica potrebbe interagire con i processi cerebrali potrebbe richiedere molti anni di studio e innovazione tecnologica. Nel frattempo, sono numerosi i pensatori che hanno esplorato le implicazioni del entanglement quantistico per la comprensione della mente e della coscienza, spesso in connessione con argomenti di filosofia della mente e metafisica.

David Chalmers è un filosofo australiano noto per il suo lavoro sulla coscienza e la filosofia della mente. Sebbene non si concentri esclusivamente sull’entanglement quantistico, ha esplorato la possibilità che fenomeni quantistici possano giocare un ruolo nei processi cerebrali e nella coscienza. In particolare in relazione alla sua famosa distinzione tra il “problema facile” e il “problema difficile” della coscienza. Henry Stapp è un fisico e filosofo che ha invece esplorato le connessioni tra meccanica quantistica e mente. Ha proposto che la meccanica quantistica, in particolare attraverso l’entanglement, possa offrire una spiegazione per la coscienza e il libero arbitrio, suggerendo che il cervello potrebbe sfruttare proprio fenomeni quantistici per i processi cognitivi.
Dal canto suo, Roger Penrose, principalmente un matematico e fisico, ha avuto un notevole impatto sulla filosofia della mente con le sue idee sull’entanglement quantistico nel cervello. Nella sua teoria Orch-OR, sviluppata insieme al medico Stuart Hameroff, Penrose suggerisce che i microtubuli nei neuroni potrebbero essere siti di processi quantistici e che questi processi potrebbero essere fondamentali per la coscienza. Infine, Karl Pribram, neuroscienziato e filosofo noto per la sua teoria olografica del cervello, suggerisce che i processi mentali potrebbero essere spiegati da fenomeni simili a quelli della meccanica quantistica, come l’interferenza e la superposizione.

Siamo, in ogni caso, in una fase nella quale la discussione sull’entanglement quantistico nel cervello è ancora altamente speculativa e controversa. Sebbene alcuni filosofi e scienziati abbiano proposto teorie intriganti, manca ancora una solida base empirica per molte di queste idee. Ma da un punto di vista pratico, come potrebbe funzionare l’entanglement del cervello in base alle attuali conoscenze? se avesse un ruolo nei processi cerebrali, dovremmo considerare come i fenomeni quantistici potrebbero influenzare l’elaborazione delle informazioni e la coscienza all’interno del cervello. Ecco alcune possibili modalità in cui questo potrebbe funzionare. I microtubuli sono componenti del citoscheletro dei neuroni che possono avere una struttura interna che permette stati quantistici.
Secondo la teoria Orch-OR di Roger Penrose e Stuart Hameroff, i microtubuli potrebbero mantenere stati quantistici coerenti grazie alla loro struttura organizzata. Aggirando in questo modo il rischio del fenomeno della decoerenza, il processo attraverso cui un sistema quantistico perde le sue proprietà quantistiche a causa dell’interazione con l’ambiente. Nel cervello, questo potrebbe avvenire rapidamente, ma secondo la teoria Orch-OR, i processi di riduzione orchestrata nei microtubuli potrebbero fornire un meccanismo per la “scelta” di uno stato quantistico coerente con l’esperienza cosciente. Perché gli stati quantistici nei microtubuli possano influenzare i processi cerebrali, dovrebbero mantenere la coerenza quantistica per periodi di tempo sufficientemente lunghi da permettere l’elaborazione delle informazioni.

Allora, se i neuroni o le reti di neuroni possono entrare in stati di superposizione quantistica, potrebbero elaborare simultaneamente diverse possibilità o alternative. Questo potrebbe portare a un modo di calcolo molto più potente rispetto alla computazione classica. Ancora, se diversi neuroni o regioni del cervello possono essere entangled, le informazioni potrebbero essere condivise istantaneamente tra loro, migliorando la velocità e l’efficienza dell’elaborazione dell’informazione. Insomma, il campo di studio è vastissimo, anche se non propriamente allo stato iniziale, e chissà se e quando riusciremo a comprendere se ciò che sosteneva Nagarjuna sulla base di speculazioni e noi abbiamo verificato empiricamente a nostre spese abbia o meno una spiegazione scientifica certa.
Fra l’altro, se i processi quantistici come l’entanglement avvenissero anche nel cervello, potrebbe significare che il cervello sfrutta proprietà quantistiche per elaborare informazioni in modi che la computazione classica non può replicare. Questo apre un altro, grande capitolo di discussione molto attivo, relativo all’intelligenza delle macchine, ovvero all’AI. I computer classici e quantistici elaborano informazioni in modi fondamentalmente diversi. I computer classici seguono algoritmi deterministici, mentre i computer quantistici possono sfruttare la superposizione e l’entanglement per eseguire calcoli paralleli.

L’intelligenza artificiale (IA) attuale è basata su algoritmi classici che imitano alcuni aspetti del comportamento umano, ma non è consapevole o autonoma nel senso umano. L’IA può eseguire compiti specifici molto bene, ma non ha una comprensione intrinseca o coscienza. E anche se le macchine potessero un giorno utilizzare la computazione quantistica, questo non implica necessariamente che sarebbero coscienti o pensanti nel modo in cui lo sono gli esseri umani. La coscienza implica un senso di sé, esperienze soggettive e consapevolezza, che sono ancora lontani dall’essere compresi e replicati nelle macchine, che non hanno un corpo e non sono allocate in uno spazio (anche culturale) ben definito. Infine, l’idea di un entanglement collettivo a livello di comunità. Un concetto affascinante, ancora quasi completamente inesplorato, che estende i principi della fisica quantistica a fenomeni sociali e psicologici.

Sebbene, come detto, si sia ancora nel campo delle speculazioni filosofiche, ci sono alcune teorie speculative e studi preliminari che esplorano l’idea di connessioni profonde e sincronizzazioni tra individui. Una delle più affascinanti è la teoria dei campi morfogenetici di Rupert Sheldrake, che ha ipotizzato che esistono campi invisibili che influenzano la forma e il comportamento degli esseri viventi. Secondo questa teoria, i campi morfogenetici contengono informazioni che sono condivise tra individui di una specie, creando una sorta di connessione collettiva. Sheldrake suggerisce che gli individui possano influenzarsi reciprocamente attraverso la cosiddetta risonanza morfica, un processo che potrebbe essere paragonato a un tipo di entanglement non quantistico ma informativo. Tornando, insomma, alla vacuità saggia di diciotto secoli fa, a quella considerazione che nulla esista se non in relazione ad altro.

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