Le proteste a Los Angeles e la sfida di Trump: il braccio di ferro sull’immigrazione è un banco di prova in vista delle elezioni di midterm

  • Postato il 11 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Los Angeles è un banco di prova” per l’amministrazione Trump. Le parole di Karen Bass, sindaca della città californiana, descrivono bene la situazione che si è venuta a creare nelle ultime ore. Il governo federale usa le proteste e i disordini che hanno travolto LA come strumento per testare i propri limiti, poteri, possibilità. Il confronto/scontro in California, che sembra sul punto di allargarsi ad altre città americane, è del resto ricco di tante e diverse questioni: politiche, istituzionali, legali, di ordine pubblico. Dal modo in cui questa storia si concluderà, dipende molto del futuro dell’amministrazione Trump. E dell’America. I problemi legali sono al momento tra i più discussi. Con un ordine esecutivo, Donald Trump ha dato mandato al segretario alla Difesa Pete Hegseth di inviare le truppe della Guardia Nazionale a Los Angeles per proteggere “gli agenti dell’immigrazione, gli edifici federali e le funzioni di ordine pubblico” dai manifestanti. Alla Guardia Nazionale, si aggiungono in queste ore anche 700 marines. Si tratta di corpi sostanzialmente diversi. La Guardia Nazionale è costituita in gran parte da membri che prestano servizio part-time, che hanno normali lavori civili, che risiedono negli Stati dove la loro Guardia opera. Si tratta di un corpo di solito al servizio del governatore dello Stato di appartenenza, che lo utilizza in caso di disastri naturali e disordini politici e sociali.

Solo in casi rarissimi – per esempio nell’eventualità di ribellione contro il governo di Washington – la Guardia Nazionale può essere “federalizzata”, può cioè essere ricondotta sotto i poteri del presidente. È quello che Trump sta facendo, parlando nel suo ordine esecutivo di proteste, disordini, danneggiamenti che rappresentano “una forma di ribellione contro l’autorità del governo degli Stati Uniti”. Diverso è il caso dei marines, che fanno invece parte dell’esercito federale e che sono in active duty, in servizio attivo. Una legge del 1878, il “Posse Comitatus Act”, definisce illegale l’uso di truppe sul territorio nazionale con scopi di polizia. In altre parole, l’esercito non può essere utilizzato per sedare proteste e disordini sul suolo americano. C’è però un’altra legge, l’“Insurrection Act” del 1807, che afferma che, in situazioni di “ostruzione illegale… o di ribellione contro l’autorità degli Stati Uniti”, un presidente può utilizzare l’esercito.

Trump, per il momento, non ha invocato formalmente l’“Insurrection Act”, anche se ha più volte parlato, a proposito delle proteste di LA, di “insurrezione”. Si aspetta di capire cosa la Casa Bianca deciderà nelle prossime ore, soprattutto in presenza di un peggioramento dell’ordine pubblico. Per il momento, la California ha citato in giudizio l’amministrazione Trump, che con l’invio della Guardia Nazionale avrebbe appunto ecceduto nelle sue competenze e violato la Costituzione. Al tema legale, e costituzionale, si aggiunge poi ovviamente quello politico. In queste ore, dichiarazioni e account social di Trump e dei suoi principali collaboratori, in particolare il “border czar” Tom Homan e il vice chief of staff Stephen Miller, enfatizzano una situazione apparentemente fuori controllo. Attacchi agli edifici del governo. Incendi appiccati per le strade di LA. Bandiere messicane sventolate dai manifestanti. L’obiettivo è appunto quello di comunicare un senso di urgenza, di attacco allo Stato, di invasione da parte di delinquenti che arrivano dal confine meridionale, cui le autorità democratiche dello Stato non sarebbero in grado di dare risposta adeguata.

Homan è arrivato a minacciare di arresto gli stessi Newsom e Bass, nel caso dovessero “impedire agli agenti federali di fare il proprio lavoro”, quindi nel caso dovessero contrastare arresti e deportazioni di migranti illegali. Trump ha poi più volte parlato di “manifesta incompetenza” di Newsom. Gli attacchi hanno un duplice scopo. Da un lato, l’obiettivo è sicuramente Newsom, forse il più probabile candidato democratico alle presidenziali 2028. Attaccare Newsom sull’immigrazione oggi, rilevare la sua incapacità, la sua debolezza, la sua apparente condiscendenza nel permettere l’invasione degli stranieri, significa preparare il terreno per la campagna 2028. L’accusa che si profila è infatti una, potenzialmente distruttiva per un candidato, almeno in diverse aree del Paese. Newsom sarebbe “debole sull’immigrazione”. C’è però una seconda questione politica importante che questa vicenda presenta. La California è lo Stato più ricco e popoloso d’America. La California è lo Stato dove prosperano numerose comunità di immigrati, in particolare quella ispanica. La California è uno Stato progressista, in cui si è diffusa una pratica poi sviluppatasi ampiamente a livello nazionale, quella delle sanctuary cities, le città che difendono i diritti dei migranti, che non collaborano con le autorità federali nelle operazioni di rastrellamento e arresto e deportazione. Attaccando la California, l’amministrazione manda un messaggio a tutta la nazione. Se non collaborate con noi, farete la fine del Golden State. Vi manderemo esercito e Guardia Nazionale. Vi esautoreremo dei vostri poteri.

Difficile dire, a questo punto, come può evolvere la vicenda. A Los Angeles regna una calma tesa, irreale, pronta a precipitare in nuovi scontri e proteste. In decine di città, tra queste San Francisco, Dallas, Austin, New York City, si sono organizzate e si stanno organizzando dimostrazioni in solidarietà con LA. Mentre i democratici parlano di “deriva ormai chiaramente autocratica”, i repubblicani per il momento invitano a non acutizzare lo scontro, senza però porre limiti veri all’azione del presidente. Illustra bene i sentimenti repubblicani la posizione di Kevin Cramer, senatore del North Dakota. Cramer invita a “non prendere alla lettera tutto quello che Trump dice”. Afferma di non credere che “qualcuno possa davvero arrestare Newsom”. Fa comunque notare che “è chiaro che posti come la California hanno deciso di diventare santuari per criminali”. Ai repubblicani non fa ovviamente comodo che la situazione precipiti. Sono troppi i rischi politici che una spirale di violenza porterebbe anche al loro partito e al loro governo. Per i repubblicani è comunque utile attaccare i democratici in tema di immigrazione. In questo modo, preparano il terreno alle elezioni di midterm del 2026 e poi a quelle presidenziali del 2028.

Come sempre, comunque, al fondo di tutto c’è lui, c’è Donald Trump. Anche in questa occasione, il presidente enfatizza lo stato di emergenza, ciò che renderebbe necessaria l’adozione di poteri eccezionali da parte sua. È successo in tema di dazi e di presunto antisemitismo nelle università. Succede, a maggior ragione, in tema di immigrazione, su cui Trump sa di poter contare su un sostegno piuttosto vasto tra gli americani. Per ora, comunque, il presidente ha parlato di insurrezione ma non l’ha dichiarata formalmente. Anche il suo ordine esecutivo è meno roboante della sua retorica. In esso si dà infatti mandato a Guardia Nazionale ed esercito di “proteggere agenti dell’immigrazione ed edifici federali” dagli attacchi dei manifestanti. Le truppe non possono quindi intervenire, arrestare, reprimere. Ma cosa succederà, nel caso le violenze dovessero allargarsi? Trump deciderà di far intervenire l’esercito? Riterrà necessario andare ancora più in là, nell’esercizio dei suoi già vasti poteri esecutivi? L’esperienza passata, in particolare l’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, dimostra che – quando provocato, quando sfidato – il tycoon va sempre allo scontro. Questa volta, lo scontro potrebbe precipitare in un conflitto dagli esiti imprevedibili e gravissimi.

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