Le 72 coltellate e il silenzio della Corte

  • Postato il 10 aprile 2025
  • Attualità
  • Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella

Non è stato un raptus. Non è stata la gelosia. Non è stata una delusione d’amore. È stata una volontà lucida, progressiva, reiterata, di negare all’altro – all’altra – il diritto a esistere.
La Corte ha stabilito che non c’è stata crudeltà. Eppure ci sono 72 coltellate. Il numero stesso – crudo, incalcolabile nella sua ripetizione – è un grido, un eco insopportabile del corpo che viene negato, invaso, spezzato.

La sentenza del processo per l’omicidio di Giulia – nome di fantasia per custodire la dignità della vittima – ha sorpreso, sconvolto, e sollevato interrogativi che toccano l’anima giuridica e morale del nostro tempo.
L’aggravante della crudeltà non è stata riconosciuta, e con essa sembra essersi dissolto, almeno sul piano formale, il riconoscimento del dolore inflitto non solo al corpo, ma all’identità, alla libertà, alla dignità di una donna.

La sentenza della Corte non ha negato il reato. Non ha cercato attenuanti fantasiose o evocato antiche mitologie del delitto passionale. Al contrario, ha riconosciuto l’omicidio. Ma ha negato la crudeltà.
Un elemento, quest’ultimo, che avrebbe aggravato la pena, ma che soprattutto avrebbe riconosciuto il dolore volontariamente inflitto come parte sostanziale del crimine.

È la prima volta che una sentenza di questo genere mette in chiaro che non si è trattato di un raptus, non di un momento di follia incontrollata, non di uno “scatto di ira” come spesso si è cercato di etichettare simili tragedie.
Questa volta, la Corte ha dovuto riconoscere che c’era lucidità. Che c’era continuità. Che c’era un piano mentale, emotivo e fisico di progressiva soppressione dell’altro. Eppure, proprio questa lucidità sembra non bastare per definire l’atto come crudele.

Il dato inquietante – e profondamente rivelatore – è che, in questa vicenda, emerge un cambiamento di sguardo: non si tratta più di amore malato, ma di controllo. Non di passione deviata, ma di volontà di dominio.

Chi ha colpito 72 volte non ha agito in un momento, ma ha prolungato la violenza nel tempo. Ha continuato a ferire anche dopo la certezza che la vita della vittima era già in fuga, che il corpo stava cedendo. Ha insistito.
Questo dato, più di ogni altro, racconta un’intenzione: non solo togliere la vita, ma cancellare l’autodeterminazione, il diritto all’esistenza, il valore dell’altro come essere umano separato, libero, pienamente soggetto.

Siamo davanti a un passaggio epocale: il femminicidio come espressione di potere e dominio, non di perdita di controllo.
Un potere che mira a negare l’alterità. A punire la libertà dell’altra. A distruggere la sua scelta di andarsene, di non appartenere, di autodeterminarsi.

Secondo il codice penale, l’aggravante della crudeltà si configura quando il reo ha infierito “volontariamente e inutilmente” sulla vittima, con l’unico scopo di aumentarne le sofferenze.
Ma cosa significa oggi “volontariamente” e “inutilmente”? Non bastano 72 coltellate?

La sentenza sembra suggerire che la reiterazione non sia stata “gratuita”, ma funzionale all’omicidio. Una visione chirurgica, razionale, quasi asettica del fatto. Ma così facendo, si rischia di dissociare il corpo dal significato.

Perché colpire 72 volte? Che funzione aveva continuare dopo le prime, dopo le decine, dopo la certezza della morte?

In questa dissociazione, la giurisprudenza italiana potrebbe aver perso una grande occasione: quella di riconoscere la crudeltà non solo come supplemento sadico, ma come espressione di una ideologia di dominio, di una negazione profonda dell’umanità dell’altro.

Le sentenze non sono solo atti giuridici. Sono anche atti culturali, atti simbolici. In quanto tali, hanno un potere educativo – nel bene e nel male.
Una sentenza che non riconosce la crudeltà rischia di normalizzare l’inaccettabile, di rendere tecnicamente spiegabile ciò che dovrebbe invece interrogarci in profondità.

Chi ascolta, chi legge, chi ha subito o temuto la violenza, può sentirsi non visto. Può sentire che il dolore – che grida anche da una ferita silenziosa – non viene pienamente ascoltato.
Eppure, è proprio lì che si gioca il senso della giustizia: dare nome al dolore. Dare forma all’assenza. Riconoscere ciò che è stato tolto.

Giulia – e con lei molte altre – non è stata solo uccisa. È stata spogliata del suo diritto a essere se stessa, libera e irripetibile. E questo è il cuore di ogni femminicidio: non il sangue, ma l’annullamento dell’identità.

Non riconoscere la crudeltà, in questo caso, significa forse non aver compreso fino in fondo cosa sia stato distrutto.Non solo un corpo, ma una storia. Non solo un’esistenza biologica, ma un’identità irriducibile. Non solo un nome, ma una voce.

Non chiediamo alla giustizia di essere emotiva. Ma chiediamo che sia capace di sentire il senso profondo delle azioni, e di chiamarle per nome. Chiediamo che la giustizia riconosca, senza timore, che infliggere dolore prolungato non è mai neutro. È crudele. È dominio. È volontà di spegnere non solo una vita, ma un mondo interiore, una libertà.

Questa sentenza – nel suo silenzio sulla crudeltà – ci invita a un esame di coscienza collettivo.
Perché non basta punire. Bisogna anche capire.
E finché non avremo il coraggio di leggere la violenza come negazione dell’altro, e non solo come evento traumatico, non potremo davvero dire di vivere in una cultura della parità, del rispetto, della vita.

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