L’auto italiana è in coma: Stellantis ha prodotto solo 151mila unità in 9 mesi, crollo del 36%. E il governo tace

  • Postato il 7 ottobre 2025
  • Lavoro
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Una chimera, un sogno forse irrealizzabile. Di certo, al momento, una fata morgana. Il milione di veicoli prodotti in Italia entro il 2030, obiettivo del ministro delle Imprese Adolfo Urso, sembra sempre più lontano. Infatti, non ne parla più né lui né nessun altro. Men che meno Stellantis, l’unico gruppo automobilistico con fabbriche nel nostro Paese. Stabilimenti che di mese in meno perdono volumi e fanno registrare numeri tragici. Da gennaio a settembre, come mostra l’ultimo report della Fim-Cisl, hanno prodotto 151.430 autovetture, il 36,3% in meno dello stesso periodo del 2024, e 114.060 veicoli commerciali (-23,9%) concentrati nella fabbrica di Atessa che sforna Ducato, Jumper, Movano e Proace Max. Il totale fa 265.490 unità con un calo del 31,5%. È il peggior risultato della storia e la previsione per la fine del 2025 è definita “nera” dal sindacato guidato da Ferdinando Uliano: “Poco più di 310.000 unità complessive, con le autovetture che scenderanno sotto le 200.000″, mentre oltre la metà della forza lavoro del gruppo è interessata da ammortizzatori sociali.

“La prospettiva industriale non è più scontata”

L’auto italiana sta morendo, detta fuori dai denti. Un declino che non è neanche più lento ma accelera verso un’estinzione senza che il governo Meloni intervenga con una mossa di politica industriale. Anzi, negli ultimi mesi ha tacitamente favorito il laissez faire del gruppo controllato da Exor degli Agnelli-Elkann che, nel frattempo, investe sempre più all’estero e, secondo indiscrezioni di Bloomberg, si appresta a concentrare nuove, corpose risorse – circa 5 miliardi di euro – nel proprio ramo statunitense. Così Uliano dice chiaramente che gli sforzi dei sindacati per “garantire a ogni sito produttivo una prospettiva industriale e occupazionale certa, contrastando qualsiasi atto unilaterale, chiusura o licenziamento” sono diventati “un obiettivo tutt’altro che scontato, alla luce dei livelli produttivi registrati” negli ultimi due anni.

Dietro la Pandina, niente

Anche perché, ancora una volta, la produzione di Stellantis e i dati del mercato auto raccontano come l’Italia abbiamo un problema specifico legato alla propria industria automobilistica, al di là delle difficoltà del settore. Nei primi 9 mesi dell’anno, dati Unrae alla mano, nel nostro Paese sono state immatricolate 1.167.437 autovetture con un calo del 2,9% rispetto al gennaio-settembre del 2024. Le macchine si continuano a comprare, seppur in un contesto complicato, mentre i volumi del gruppo franco-italiano crollano in maniera marcatamente più accentuata. Del resto, come i metalmeccanici hanno fatto notare più volte, alle fabbriche italiane non sono state assegnate auto mass-market, cioè utilitarie destinate al mercato di massa in grado di garantire volumi apprezzabili. Ce n’è solo una, la Pandina a Pomigliano d’Arco, e infatti da sola rappresenta il 52% della produzione italiana con 79mila unità.

Meloni non risponde, Urso straparla

Ma la Fim esprime preoccupazioni anche per il modello più assemblato nel nostro Paese alla luce di una flessione del 29% rispetto al 2024. Il motivo? Come noto, la Pandina sta soffrendo l’avvio delle vendite della Grande Panda, spinta nelle concessionarie. Quest’ultima è prodotta in Serbia, a Kragujevac. L’annuncio di quella destinazione venne dato dal premier Aleksandar Vucic il 3 dicembre 2023 mentre era accanto a Giorgia Meloni, che non fece un plissé. Allo stesso modo, la presidente del Consiglio non si è mai scomposta in questi mesi di fronte alle insistenti richieste sindacali di un tavolo a Palazzo Chigi con il nuovo amministratore delegato Antonio Filosa, che per la prima incontrerà a Torino le sigle metalmeccaniche il prossimo 20 ottobre. Mentre il ministro Urso non ha mai riconvocato un incontro al Mimit, annunciato per luglio, e ancora negli scorsi giorni andava in giro a dirsi soddisfatto perché finora non ci sono stati licenziamenti, evidentemente facendo finta di non vedere le circa 6.000 uscite incentivate pagate da Stellantis negli ultimi due anni con uno stanziamento di quasi 800 milioni di euro.

Mirafiori al palo, Cassino chiusa (e in vendita?)

Alla luce dei dati della Fim, è solo questione di tempo. Non c’è un solo stabilimento in fase espansiva: il crollo, spiegano i metalmeccanici della Cisl, varia tra il 17% e il 65% rispetto al 2024. Mirafiori si è fermata ad appena 18.450 auto, tutte 500 elettriche a eccezione di 140 Maserati. Per non dire di Modena, un dramma: 75 Maserati prodotte. Cassino ha assemblato appena 14.135 unità tra Alfa Romeo Giulia, Stelvio e Maserati Grecale: “È il dato quantitativo – specifica la Fim – più negativo nella storia dello stabilimento”, che voci ricorrenti danno vicino a una cessione a un gruppo arabo. Non è detto che sarebbe un dramma: da gennaio è stato chiuso in 84 giornate lavorative, un numero maggiore a quelle di produzione.

Il caso Melfi: -87% e organico ridotto di un terzo

Pomigliano, come detto, non se la passa bene nonostante la Pandina: ha subito un calo del 35% rispetto al 2024 con 91.920 auto prodotte. Oltre alla flessione dell’utilitaria della Fiat, il sito paga la frenata dell’Alfa Tonale (7.930 unità, -41%) e il crollo della Dodge Hornet con 1.360 esemplari (-90%) nel primo semestre e lo stop produttivo dettato dai dazi imposti dagli Stati Uniti. Lo stabilimento di Melfi è un caso a sé stante e rischia di trasformare la Basilicata in un deserto industriale: 26.850 unità prodotte con un calo rispetto al periodo pre-Covid dell’87%. La fabbrica si salva grazie alle Jeep Compass e Renegade, che valgono da sole l’81% della produzione. Il lancio della nuova DS8, uno dei modelli che secondo Stellantis avrebbero dovuto risollevare la fabbrica, è stato un flop: 1.248 unità prodotte. “A Melfi, dal 2021, circa 2.370 lavoratori – fa notare la Fim – sono usciti incentivati su base volontaria, portando gli occupati a 4.670″. Un terzo degli occupati scomparsi. Una situazione sempre più complicata. Ma al ministero delle Imprese, quello al quale Meloni volle aggiungere il “made in Italy”, si preferisce nascondere la testa sotto la sabbia.

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