L’appello di Oxfam: “Stop al commercio con gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. L’occupazione distrugge l’economia palestinese”
- Postato il 15 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Il villaggio palestinese di Deir Ballut si trova in Cisgiordania, a 40 chilometri dalla città di Nablus. Ci vivono poco meno di 4mila persone, in gran parte agricoltori. Qui in un solo giorno, le autorità israeliane hanno confiscato 642 ettari di terreno. “Quando abbiamo ricevuto l’ordine di sradicare i nostri ulivi siamo rimasti sbalorditi. Qui era un paradiso” racconta Khitam, un’abitante del villaggio. “Questa terra e questa patria sono tutto ciò che ho, non posso abbandonarle”. La sua voce è una delle tante testimonianze che Oxfam, insieme ad altre decine di organizzazioni umanitarie, ha raccolto in Cisgiordania per denunciare l’impatto dell’occupazione israeliana sulla popolazione palestinese e insieme chiedere all’Unione europea e al Regno Unito di vietare gli scambi commerciali con gli insediamenti illegali (QUI SI PUO’ ADERIRE ALLA CAMPAGNA).
A sostegno dell’appello, le organizzazioni hanno diffuso un report dettagliato che fotografa, con un’ampia raccolta di dati, voci e grafici, il modo in cui viene distrutto il potenziale economico delle comunità palestinesi e la loro capacità di sostentamento. Dall’aumento degli espropri e delle demolizioni, al controllo delle risorse idriche, fino all’aumento del numero di checkpoint che rende impossibile gli spostamenti e ostacola il movimento delle merci. Il tutto incentivato dal governo di Tel Aviv e con investimenti di imprese e istituzioni finanziarie estere (QUI IL DOCUMENTO INTEGRALE). I risultati sono agricoltori palestinesi privati della loro terra, frutteti e ulivi cancellati, mercati chiusi e una disoccupazione alle stelle.
Un’oppressione “sempre più soffocante” la definisce Paolo Pezzati, portavoce per le crisi umanitarie di Oxfam Italia. “Una strategia che mira a frammentare l’economia della Cisgiordania e minare la costruzione di un futuro Stato palestinese. Per questo porre fine al commercio con gli insediamenti è un passo necessario per sostenere i diritti umani e proteggere i mezzi di sussistenza della popolazione palestinese. Solo così si potrà contribuire davvero a fermare l’espansione degli insediamenti che oggi rappresentano il 42% della Cisgiordania e porre fine all’occupazione illegale”.
L’espansione senza fine degli insediamenti. Oxfam evidenzia come al 1967 a oggi, Israele si è appropriato di circa 2mila chilometri quadrati di terreno per la costruzione degli insediamenti. “Negli ultimi 4 anni si è assistito a un’accelerazione, culminata con la recente approvazione del piano E1 che interrompe di fatto la circolazione dei palestinesi tra la Cisgiordania settentrionale e meridionale”. In 5 anni i nuovi insediamenti sono aumentati del 180%. Gran parte dei nulla osta rilasciati da Israele hanno riguardato aree sempre più interne della Cisgiordania, frammentando il territorio palestinese e riducendo la libertà di movimento. “Dopo aver sequestrato la terra – si legge nel report – spesso le forze israeliane e i coloni distruggono e sradicano colture e frutteti per liberare spazio da adibire all’ulteriore espansione degli insediamenti”. Si stima che dal 1967, anno della Guerra dei sei giorni, sono stati sradicati 800mila ulivi palestinesi, di cui più di 10mila vandalizzati o distrutti nel 2023. “La distruzione degli ulivi ha un significato particolare in quanto la coltivazione e vendita delle olive e dei prodotti a esse correlati rappresentano circa il 14% dell’intera economia palestinese”.
Il controllo dell’acqua. Gli insediamenti dei coloni israeliani hanno un accesso preferenziale alle risorse idriche, “creando così disparità sostanziali nella disponibilità d’acqua sia ad uso domestico che commerciale”. Secondo i dati raccolti, i coloni israeliani consumano in media 247 litri d’acqua al giorno mentre i palestinesi ne usano poco più di 82 litri, quindi meno del minimo di 100 litri raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Chi non ha accesso alla rete idrica sopravvive con 26 litri al giorno.
L’economia palestinese strangolata. Dal 2023 a oggi, in Cisgiordania, il tasso di disoccupazione è raddoppiato: un palestinese su tre non ha un impiego. Questo ha aumentato notevolmente le percentuali di chi vive in povertà, che sono passate dal 12% al 28%. Anche chi un lavoro ce l’ha fa molta fatica a tenerlo anche a causa degli 800 checkpoint distribuiti in Cisgiordania, che rendono ogni spostamento, anche il più banale, un’odissea. “Le lunghe attese ai checkpoint – scrive Oxfam – hanno gravi ripercussioni sui lavoratori, le aziende e l’economia palestinese. Dal 2023, i tempi sono aumentati in media di 50 minuti, con un picco del 173,4% a Nablus. E questo si traduce in quasi 200mila ore di lavoro perse, con un costo a danno dei di 764.600 dollari al giorno, pari a una perdita salariale di 16,8 milioni al mese”. Anche il commercio subisce i contraccolpi. “Mentre i beni prodotti negli insediamenti possono essere trasferiti liberamente, i prodotti palestinesi subiscono severi e meticolosi controlli ai checkpoint: da ciò derivano notevoli ritardi, spreco di prodotti alimentari e agricoli, perdite finanziarie per gli esportatori palestinesi”
Il prezzo pagato dalle donne. In un contesto economico così difficile, per le donne è ancora più complicato riuscire a mantenere se stesse e la famiglia. Per questo migliaia di loro trovano impiego negli insediamenti israeliani. Non è una scelta. “Circa 6500 donne sono costrette a lavorare negli insediamenti, spesso senza un contratto, un’assicurazione sanitaria e condizioni minime di sicurezza, con orari lunghissimi e per paghe da fame, di molto inferiori al salario medio israeliano: circa il 65% guadagna meno di 20 dollari al giorno”.
La campagna Stop trade with settlement. Nel report viene citato un parere della Corte internazionale di giustizia del 2024. Secondo la Corte occorre interrompere gli scambi commerciali con gli insediamenti per non rendersi complici di un’espansione illegale. “Tuttavia Israele continua ad attrarre investimenti esteri nei suoi insediamenti in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, attraverso agevolazioni fiscali, sussidi, trattamenti preferenziali, affitti ribassati dei terreni e sovvenzioni”. Nel report viene dato spazio anche ad alcune tra le principali aziende e istituzioni finanziarie internazionali che hanno relazioni commerciali con gli insediamenti israeliani. Tra queste c’è la JC Bamford Excavators (JCB), un’azienda edile con sede nel Regno Unito. “Le sue attrezzature – denunciano le ong – vengono utilizzate da Israele per demolire strutture, abitazioni e coltivazioni palestinesi e per costruire insediamenti illegali”. C’è poi la multinazionale tedesca Siemens, che “fornisce attrezzature e servizi per le infrastrutture di trasporto che collegano gli insediamenti e ha chiuso un accordo per lo sviluppo della rete ferroviaria del valore di oltre 1 miliardo di euro”. Il maggiore partner commerciale di Israele, con il 32% del movimento totale di merci, è l’Unione Europea. Restringendo lo sguardo sull’Italia, il nostro Paese nel solo 2024 ha importato beni e servizi per un miliardo di euro, per un totale di scambi pari a oltre 4 miliardi. Da qui l’appello di Oxfam che, in rete con altre realtà come Amnesty, Aoi, Arci, Acs e Vento di terra, chiede all’Europa e al governo italiano di interrompere ogni relazione commerciale con gli insediamenti illegali israeliani, lo stop all’Accordo di associazione. Tra le richieste c’è anche quella di impedire a “banche e alle istituzioni finanziarie di concedere prestiti e crediti a società basate negli insediamenti che ne finanziano lo sviluppo” e di vietare l’ingresso nel mercato europeo e nel Regno Unito di merci di cui non sia dimostrata l’esatta provenienza. “In tutta Europa – spiegano le organizzazioni promotrici della campagna – sono presenti prodotti provenienti da lì, ma etichettati ‘Made in Israel’ Per compiere un primo passo concreto in difesa dei diritti del popolo palestinese è quindi fondamentale che l’Ue e tutti gli stati membri mettano al bando il commercio con gli insediamenti, compresa la fornitura di servizi e gli investimenti”.
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