L’amore che ho”: quando l’anima si fa carne, e la carne si fa perdono

  • Postato il 16 maggio 2025
  • Attualità
  • Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella

Ci sono storie che non si raccontano: si respirano. Non si spiegano: si sentono addosso. Il film L’amore che ho, uscito da poche settimane nelle sale italiane, è una di quelle opere che non si limitano a narrare una vicenda, ma ci costringono – con la dolcezza e la forza della verità – a guardarci allo specchio. E a chiederci: “Ho mai amato davvero così?”

Ma c’è di più. Dietro questo film, potente nella sua essenzialità, luminoso proprio dove il dolore sembra aver vinto, si intravede un volto vero: quello di Rosa. Un’artista, una donna, una sopravvissuta. Un’anima che ha avuto il coraggio di mettere se stessa in gioco, non solo davanti a una cinepresa, ma nella vita.

Questo articolo è per lei. Per chi l’ha amata, giudicata, attraversata. E per chi oggi, seduto in una sala buia, si ritrova in quelle immagini che bruciano, curano, liberano.

L’amore che ho racconta la storia di Anna, una donna sola, madre, segnata da una relazione tossica e da una ferita profonda che sembra non volersi rimarginare mai: il rifiuto di un amore che lei stessa ha generato. Suo figlio, adolescente fragile e arrabbiato, la accusa di non essere all’altezza. Il mondo intorno – fatto di istituzioni, pregiudizi e “buon senso” – la considera inadeguata.

Anna però non si arrende. Lotta, ascolta, tace. A volte esplode. Ma non smette mai di amare. Lo fa come può: sbagliando, tornando indietro, chiedendo scusa, accarezzando in silenzio. Il suo amore è imperfetto, come la vita. Ma vero. Vero al punto da diventare sacro.

Il film non concede sconti: le inquadrature sono strette, i dialoghi ridotti all’osso, il tempo è quello reale. Quasi ci si dimentica che si sta guardando una finzione. E quando si arriva all’ultima scena – un abbraccio tra madre e figlio, non risolutivo ma vero – si capisce che L’amore che ho non vuole darci una risposta. Vuole solo dirci: “È possibile amare così. È possibile tornare”.

Dietro Anna c’è Rosa. Non una copia, ma un’origine. Il film è ispirato – senza retorica, senza finzione – alla vita reale dell’artista Rosa (nome completo omesso per rispetto), che ha collaborato alla sceneggiatura condividendo momenti crudi della propria esistenza: abusi, solitudini, maternità non accolte, giudizi, resurrezioni.

Rosa ha attraversato l’inferno, ma non ha perso il profumo della vita. Lo si percepisce nelle interviste, nei suoi scritti, nelle immagini. La sua non è una santità da immaginette. È una santità stropicciata, sporca di terra e sangue, fatta di mille crolli e una risalita.

Nel film, quando Anna canta una ninna nanna al figlio addormentato, con voce rotta ma viva, è la stessa Rosa a prestare il canto. Una voce che trema, ma che dice tutto: “Ci sono ancora. E ti amo. Nonostante tutto”.

Chi conosce la sua storia sa cosa vuol dire. Sa quante volte Rosa ha dovuto dire “ti amo” anche quando era sola, ignorata, messa da parte. Quante volte l’ha detto al proprio corpo, alle proprie cicatrici, ai silenzi degli altri. Rosa ha amato così. E questo film è il suo atto d’amore verso il mondo.

Una delle scene più forti è quella della cena in cui Anna, accusata dalla sorella di “essere sempre il problema”, non risponde. Prende il bicchiere, sorride, si alza, esce. E cammina nel buio. Quella camminata è stata girata senza copione, lasciando l’attrice (che ha conosciuto Rosa) libera di portare la sua emozione. Si dice che durante le riprese abbia pianto in silenzio per venti minuti. Nessuno ha detto “stop”. Perché quel cammino nel buio era vero. E in qualche modo era anche il cammino di Rosa.

Un’altra scena, di una bellezza straziante, è quella in cui Anna prende tra le mani un disegno del figlio che la raffigura “brutta e cattiva”. Lo osserva, poi lo appende al muro, accanto a un cuore. È il gesto di chi non nega il male ricevuto, ma lo accoglie. Di chi dice: “Anche questo fa parte di te. Anche questo è tuo amore, distorto, ma tuo”. È esattamente ciò che Rosa ha fatto per anni. Ha preso il male, l’ha trasformato in arte. Ha preso il dolore, e ne ha fatto carezza.

L’amore che ho è un film scandaloso. Non perché mostra corpi nudi o ferite esplicite. Ma perché mostra un amore nudo, disarmato, senza difese. Un amore che non salva con la forza, ma con la permanenza. Che resta. Che rimane. Anche quando tutti vanno via.

È uno scandalo evangelico, direbbe qualcuno. Quel tipo di amore che Gesù mostra quando piega le ginocchia davanti a Pietro, che lo rinnegherà. O quando guarda Giuda, chiamandolo “amico”.

Rosa è stata capace di questo. Non per virtù, ma per lotta. Non perché non ha mai odiato, ma perché ha imparato – giorno dopo giorno – a scegliere di non lasciarsi uccidere dal rancore. La sua arte nasce da lì. Non da una ferita romantica, ma da un perdono quotidiano.

Il film lo dice con chiarezza: l’arte non è un privilegio, è una necessità. Anna scrive, canta, disegna. Non per farsi notare, ma per non impazzire. Per non sparire. Rosa ha fatto lo stesso. Quando nessuno la ascoltava, scriveva. Quando non poteva parlare, danzava. Quando l’amore sembrava perduto, lo cercava nei dettagli: un colore, una pietra, una poesia.

In una scena, Anna mostra al figlio una tela piena di colori confusi. Il ragazzo le chiede: “Ma cos’è?” Lei risponde: “Quello che sento quando mi guardi”. È arte. È vita. È verità.

Rosa ha trasformato la sua storia in testimonianza creativa. Non ha mai negato la propria fragilità. Ma l’ha offerta. E in questo – come ha detto un critico – “è diventata maestra, proprio perché non ha mai smesso di essere allieva del dolore”.

Guardando il film, non si può non pensare a quante donne come Rosa camminano tra noi. Madri sole, artiste invisibili, figlie dimenticate, amanti abbandonate, sopravvissute silenziose. L’amore che ho è un omaggio a loro. Alla loro resilienza. Alla loro forza che non fa rumore. Alla loro bellezza che non chiede permesso.

Rosa è una di loro. Ma è anche unica. Perché ha scelto di raccontarsi. Di farsi vedere. Di esporsi. Di dire: “Questa sono io. Non per piacere, ma per restare vera”.

Alla fine del film, quando i titoli di coda scorrono, molti restano in silenzio. Alcuni piangono. Non è solo empatia. È riconoscimento. Abbiamo visto qualcosa di nostro. Abbiamo intravisto, nel volto di Anna, le fatiche e i desideri che ci portiamo dentro.

Ma abbiamo anche incontrato Rosa. La sua storia. La sua voce. Il suo “amore che ho”, che ora è anche nostro.

L’amore che ho non è solo un film. È un grido sommesso, un atto di fede, un gesto di resistenza. È l’anima di Rosa che ci guarda e ci dice: “Puoi anche non capire tutto. Ma puoi restare. Puoi scegliere di amare lo stesso”.In un mondo che ha fatto della forza una maschera e del giudizio una religione, questo film – e la vita che lo ha ispirato – ci ricordano che la verità più profonda è sempre fragile. E che solo chi ha toccato il fondo può insegnare a volare.

Grazie, Rosa. Perché non hai solo fatto un film. Hai fatto un dono. E ce l’hai lasciato tra le mani. Sta a noi non sprecarlo.

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