L’altro Marocco: tra Tangeri e Tétouan, i luoghi che non ti aspetti
- Postato il 16 maggio 2025
- Di Panorama
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I piatti sono dimenticabili e le bevande arrivano in bicchieri scheggiati, con addosso qualche ruga di troppo. Il Café Hafa ha più di cento anni e se li porta male, ma nessuno ci fa caso. Qui si viene per assecondare vecchie nostalgie, per scriversi dentro lo stesso tipo di ricordi. Dalle sue terrazze su più livelli, dai tavoli di maioliche con le sedie dei lidi di mare, la danza schiumosa delle onde distrae per un attimo dal vero spettacolo: la sagoma dell’altro continente che svetta in controluce sullo sfondo.
A Tangeri, punta estrema del nord del Marocco, dove l’Africa si stiracchia per sfiorare l’Europa, lo stretto di Gibilterra continua a dimostrare quanto due mondi riescano a guardarsi e a interagire. A contaminarsi, sovrapporsi e coesistere. La Spagna è lì dall’altro lato, per le strade si ascoltano accenti catalani e note di flamenco suonate sporche da una radiolina, mentre per gli echi di Francia l’indirizzo è Villa Mabrouka, parola araba che significa «fortuna».
È un bacio della buona sorte quest’oasi di giardini lussureggianti nel cuore del centro, in grado di stregare chiunque, compreso lo stilista Yves Saint Laurent, che la volle come sua casa privata. Oggi è un hotel di poche stanze intime, splendide piscine, ristoranti e bar per una sosta, una pausa dal saliscendi faticoso dei dintorni. L’unica raccomandazione è andarci di giorno per percepirne l’incanto, che non è il lusso, ma l’eleganza della natura in un’atmosfera saldamente rétro. Semplicemente, come osservava lo scrittore William Burroughs, «Tangeri è il polso del mondo». La prova della sua palpitante multiformità.
Il Grand Socco, la piazza che si spalanca al termine di un dedalo di vie, rimane un polmone di palme e di vita tra una fontana e un vecchio cinema, carretti di frutta e questuanti disperati; alberghi come il Fairmont Tazi Palace, che un secolo fa era la sontuosa dimora di un delegato del sultano, permettono di cogliere la completezza del luogo da una prospettiva privilegiata, più appartata e tranquilla. Di rifugiarsi nello sfarzo, per un bagno nella piscina panoramica che propizia una notte di sogni indisturbati e pacifici.
Questa porzione di Marocco è un piano d’ingegneria al contrario, il progetto ossessivo di smontare gli stereotipi, smantellare i preconcetti sull’identità e la geografia di un Paese. Allontanandosi dal porto, tra i più trafficati al mondo, con il suo arcobaleno di container e i tir in spazientita attesa, ci si dirige verso colline verdi velate dalla nebbia, con sentori d’Appennino. L’asfalto s’arrampica, guadagna quota, poi ridiscende curvando a est, puntando sempre il mare.
La meta è Tétouan, la cui parte vecchia è patrimonio dell’Unesco. Come Marrakech, ma facendo a meno della selva di riad dai prezzi esorbitanti, i bar sui tetti volgarmente chiassosi che imitano Ibiza, i bazar con prodotti del posto, però made in Cina. La medina, qui, è una prova di verginità, un manifesto d’autenticità: i turisti sono rarissimi, si muovono in piccoli gruppi scortati da guide locali perché perdersi è facile e, dopo il tramonto, pericoloso.
Si transita fra l’ossequio alla morte e un calcio alla vita, tra enormi cimiteri e campi di pallone affollati di bambini; si arriva in una bottega su due piani, dove il proprietario a un tratto si arresta e trova sul telefono una foto di lui da giovane, da qualche parte in Italia. Racconta di quanto ami il nostro Paese, non si aspetta acquisti, ringrazia per averlo onorato di una visita.
Il suq è ancorato agli Anni Novanta, fra ingombranti televisori con il tubo, videoregistratori, rasoi con il filo, cellulari preistorici scassati. Nessuno li degna di uno sguardo, paiono gli indizi di una vendetta contro il presente, un tentativo di resistenza alla voracità del tempo. La gente sciama verso i banchi di dolci, s’immobilizza per pregare, riempie le spianate che ricordano Rabat o transita per le concerie di pelli identiche a quelle di Fes, su scala ridotta, con l’identico puzzo di marcio intenso.
Da queste parti si atterra con i voli Vueling che passano per Barcellona, portando la stessa voglia di spiaggia e di sole, svuotata della movida catalana. La destinazione dall’aeroporto di Tangeri è la placida Tamuda Bay, sequenza di case vacanze e resort dove si abbronzano le famiglie bene del Marocco. È un trionfo di Mediterraneo, con tocchi d’esotismo. L’ultimo grande attrattore è il Royal Mansour, parte di un gruppo alberghiero di proprietà della famiglia reale.
Si viene effettivamente trattati da sovrani, in ville e suite arredate con calore, gusto e sobrietà (la struttura gemella di Marrakech predilige invece un’opulenta sovrabbondanza). Il punto di forza è la proposta gastronomica, in particolare quella del ristorante Coccinella, trattoria chic curata dai fratelli Alaimo, con la pasta fatta in casa e il tiramisù delizioso, assieme all’immensa spa con i trattamenti rigeneranti, una piscina con la scultura di una luna che scende dal soffitto, un’altra con le lampadine sospese sull’acqua, come una tribù di lucciole impietrite.
Nel primo tratto di strada che conduce a Tamuda Bay s’incontra una barriera di cemento ben sorvegliata. Sbarra l’accesso alla riva, scoraggia le nuotate sventurate verso la vicina Ceuta, territorio di Spagna nell’ultimo lembo d’Africa. La gente del posto schiva l’argomento, nasconde per pudore una verità condivisa: in tanti, ogni anno, tentano di entrare da lì in Europa in modo clandestino. A volte finisce in tragedia.
Il Vecchio Continente così vicino ed evidente, così solidamente scolpito nell’identità del luogo, è l’illusione più sfuggente e pericolosa. La promessa triste di una libertà proibita.