“La verità è che non c’è niente di più programmabile dell’emergenza”, dice Lombardo, che guida Areu

  • Postato il 5 dicembre 2024
  • Di Il Foglio
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“La verità è che non c’è niente di più programmabile dell’emergenza”, dice Lombardo, che guida Areu

Cinque milioni e 548.556 telefonate in dodici mesi. Più di 15 mila al giorno, 640 all’ora. Oppure, se preferite, 10 e mezza al minuto. Poiché in Lombardia vivono circa dieci milioni di persone, vuol dire che nel 2023 c’è stata una chiamata di emergenza ogni due abitanti, neonati compresi. E una su 10 ha avuto bisogno di aiuto: i pazienti soccorsi sono stati 931.714. Sarà anche vero che i numeri non dicono tutto, ma fanno capire molto. In questo caso, basta scorrerli per avere l’idea di quanto sia complesso gestire la macchina dell’Emergenza-Urgenza nella regione più abitata d’Italia. Soprattutto se si pensa che accanto al classico 112, Numero unico di emergenza, coesistono il vecchio 118 (digitato da chi cerca il soccorso sanitario) e il più recente 116117 (il Numero europeo armonizzato, per le cure mediche non urgenti).

 


E poi le ambulanze e l’elisoccorso, il trasporto di organi e quello del sangue… Tutto lì, sotto lo stesso ombrello: l’acronimo è Areu, Agenzia Regionale Emergenza Urgenza. Quattro centrali per il 118 (Milano, Bergamo, Como e Pavia), tre per il 112 (Milano, Brescia e Varese), una per il 116117 e una dozzina di strutture sul territorio per dare appoggio agli 830 dipendenti diretti, i mille e 300 medici e affini che dipendono da Asst e ospedali, i 25 mila tra operatori, volontari e professionisti delle ambulanze. “Un’architettura complessa”, la chiama l’uomo che la guida da gennaio: Massimo Lombardo, medico specializzato in organizzazione dei servizi sanitari con un cv che l’ha portato, tra le altre tappe, a Milano e Monza, Genova e Brescia, ma soprattutto a Lodi nei giorni del Covid.

 

Nel paese in cui domina una narrazione popolata di medici in fuga, infermieri in estinzione e pazienti che sempre più spesso danno di matto nei Pronto soccorso, quello di Areu è un caso di sanità che funziona. E non per il cliché degli italiani capaci di dare il meglio solo in emergenza, anzi. “La verità è che non c’è niente di più programmabile dell’emergenza”, dice Lombardo: “Io non le so dire se sarà un signor Mario o una signora Maria, ma so per certo che oggi una frattura di femore a domicilio al Pronto soccorso di Niguarda si presenta… Il tema vero è come attrezzarsi”. Qui, “attrezzarsi” è stata una scelta politica. Netta, fatta nel 2007, quando la Regione decise di togliere l’Emergenza Urgenza e il 118 alle centrali provinciali e alle aziende ospedaliere e di mettere in piedi una struttura ad hoc. “C’era bisogno di standardizzazione per garantire un livello adeguato di servizio a tutti i lombardi, dal centro di Milano al paesino della Val Trompia”. Da qui la decisione di creare “un sistema unico di rete, che mettesse allo stesso tavolo le Asst, gli ospedali e il mondo delle Croci e il volontariato, per tirarne fuori una macchina logistica più efficiente”. Di convincere gli attori locali a fidarsi (“difficile, ma c’era un mandato forte e c’è stato molto dialogo”).

 

E poi, man mano, di aggiungere a quella macchina altre incombenze. Come il 112, che Areu gestisce per conto del ministero dell’Interno (vuol dire interconnettersi con le reti di Polizia, Carabinieri, Stradale, Vigili del Fuoco “e adesso pure la Guardia Costiera”). Di quei cinque milioni e mezzo di chiamate annue (tempo di risposta media dichiarato: 8,7 secondi), il 51 per cento finisce tra le cosiddette “inappropriate”: “Dalla richiesta non urgente a chi domanda solo informazioni, al bambino che schiaccia il cellulare del papà”. Le altre prendono due strade, a seconda della tipologia: più o meno metà è per le centrali di Polizia, Carabinieri e affini, il resto va al 118 e al soccorso sanitario. Che in Lombardia finisce per operare poco più di un milione di interventi l’anno, oltre alle 2.380 missioni per trasporti di organi e a tutto il resto. In più, appunto, il 116117, il Numero europeo istituito per ciò che non è emergenza: “Riceve le chiamate della cosiddetta continuità assistenziale, come il cittadino che ha bisogno di notte o mentre il suo medico ha l’ambulatorio chiuso: chiama, e lo indirizziamo dove può ricevere aiuto”. Conclusione: “Siamo passati da ‘quelli che ti mandano l’ambulanza’ a una struttura logistica capace di rispondere a bisogni diversi. E nel momento in cui la Regione sta investendo sul cambiamento della sanità territoriale, con le Case di comunità e via dicendo, è importante sapere che c’è un numero attivo 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per aiutarti. Numero che, tra l’altro, è partito proprio durante la pandemia”.

 

Ecco, la pandemia. Per Lombardo è stato un momento di svolta. Quando è scoppiata, febbraio 2020, lui era a Lodi. L’epicentro di tutto, in Italia. Ricorda benissimo il pomeriggio in cui gli arrivò la telefonata dell’anestesista di Codogno: “Abbiamo escluso il resto, manca solo il test Covid”. “Le abbiamo detto: ok, fallo. Le linee guida, in quel momento, non aiutavano: nessuno era preparato a un caso autoctono. In quelle sei ore prima di avere il risultato abbiamo iniziato a ripensare tutto: gli scenari possibili, come riorganizzare l’ospedale, cosa chiudere, come spostare i pazienti… Ci siamo trovati di colpo in un territorio sconosciuto”. Quando, la sera, arrivò la conferma, “la vita è cambiata in maniera radicale”. Per lui e per chi gli stava accanto. “Ho avuto colleghi morti e altri che hanno perso tutti: moglie, figli, parenti. Eppure eravamo lì a lavorare, a cercare soluzioni”. Erano i mesi dei medici eroi e degli infermieri martiri, del caos totale e delle file di bare, degli ospedali ribaltati in un giorno e di quelli allestiti in poche settimane, per arginare il virus. Anche la parola “emergenza” è diventata altro, in quel periodo. Ma cosa è rimasto? Cosa abbiamo imparato, noi e il sistema sanitario? Lombardo tira un respiro, profondo. “In Italia mi è capitato di parlare di Covid più nelle aule di tribunale che in quelle universitarie. All’estero è stato il contrario: l’esperienza di Codogno è diventata un case study persino ad Harvard. Anche noi abbiamo imparato tantissimo: sulla gestione dei posti letto, sul management, sul valore del nostro lavoro. Ma non dobbiamo tornare indietro. L’uomo è una creatura elastica: tende a dimenticare in fretta e tornare alla posizione di partenza”.

 

A tornare indietro in fretta è stato il pendolo dell’entusiasmo verso certi mestieri. Ma la crisi di vocazioni, in Italia, non riguarda solo medici e infermieri: tocca anche altri pezzi del sistema. Gli operatori delle centrali, per esempio. “Professionisti bravissimi, preparati, capaci di gestire situazioni complesse e drammatiche: ma ovviamente turnano anche di notte e nei weekend, 365 giornate all’anno h24. Lo stress è pesante. E non hai neanche la gratificazione di avere davanti il paziente a cui, magari, hai salvato la vita. C’è tanto turnover, e bisogna lavorare parecchio per formarli”. Così come bisogna studiare soluzioni per un altro problema: le croci. Sono una rete diffusa, ancora molto capillare (in Lombardia ci sono 329 ambulanze di organizzazioni convenzionate, oltre a un centinaio di auto mediche e infermieristiche), ma, anche qui, hanno sempre meno volontari. “Ne stiamo parlando con le associazioni, c’è un tavolo di lavoro”, dice Lombardo: “E’ una questione che richiede uno sforzo comune. Le croci hanno un valore enorme. Non solo perché il volontario ti dà gratis il suo tempo (e tanto, perché gli chiediamo un percorso di formazione impegnativo), ma anche per il legame col territorio. Se sei un volontario che abiti in un paesino di provincia, e ti formiamo come un professionista, creiamo un patrimonio che resta lì, ed è prezioso. Bisogna lavorare per valorizzare questa presenza. E capire come attivare i giovani, cosa li può spingere a occuparsi di volontariato anche in questo campo”. 

 

E’ una delle questioni aperte. Assieme a quella di come potenziare il 116117 (“già senza promuoverlo troppo, l’anno scorso ha superato il milione di chiamate: bisogna aumentare le centrali”). E a come usare la quantità di dati raccolti telefonata dopo telefonata, usando gli strumenti che ti permettono di disegnare scenari e fare previsioni. Anche gli algoritmi, naturalmente. “Io non sono un esperto di Intelligenza artificiale, ma per quel poco che ne capisco la vedo come integrativa dell’intervento umano, non come sostitutiva”, dice Lombardo: “C’è una serie di attività ripetitive in cui la tecnologia può affiancare l’operatore, alleggerendolo e lasciando più spazio agli elementi della sua sensibilità”. Difficile che un chatbot sostituisca le voci del 112 come fosse un call center qualsiasi, insomma. “Ma già oggi le telefonate le puoi trascrivere con l’IA. Noi le registriamo tutte, abbiamo una mole di dati importanti da studiare”. E una struttura abbastanza flessibile da adattarsi ai bisogni e fare esperimenti. Uno è partito due anni fa. Si chiama CMI, Centrale medica integrata. “Abbiamo visto che tra le chiamate al 118 c’è una percentuale che lascia dubbi: non sono urgenze evidenti e avrebbero bisogno di essere chiarite meglio. L’automatismo prevederebbe di mandare un’ambulanza. Noi ci siamo attrezzati coinvolgendo nella Centrale medici e infermieri di Pronto soccorso”.

 

La telefonata passa a loro, e valutano. Risultato provvisorio: su 18 mila chiamate coinvolte nel test, più di 13 mila hanno seguito altre strade. “Si sono risolte attraverso una visita a distanza, indirizzandoli alle Case di comunità o mandando a casa un ‘Team di Risposta Rapida Domiciliare’, con medici e attrezzature”. Vuol dire un filtro che evita 7 viaggi su 10 in Pronto soccorso: un sollievo, per strutture sotto stress. Verrà ampliato? “Vedremo”. Intanto il “modello lombardo” si sta diffondendo. Non solo l’idea dell’agenzia unica ha preso piede altrove, ma Areu è consulente o collabora con altre sette regioni, di vari colori. “E abbiamo appena aperto un tavolo di discussione su un altro tema: come le centrali italiane del 112 possono aiutare quella di Roma per il Giubileo. Ci saranno picchi da un milione di persone al giorno: per dare una mano, meglio coinvolgere chi fa già questo mestiere”. Anche se sta a Milano. 

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Il Foglio

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