La trappola della mezzamafia e l’esempio da dare nelle scuole

  • Postato il 9 settembre 2024
  • Di Il Foglio
  • 1 Visualizzazioni
La trappola della mezzamafia e l’esempio da dare nelle scuole

Ci sono almeno tre modi diversi per parlare dell’inizio di un nuovo anno scolastico. Uno scaturisce dai ricordi, dalla nostalgia per il batticuore ogni anno diverso perché diverse ne erano le ragioni, dal ritrovare lo sguardo del compagno o della compagna di cui eravamo innamorati o le attese per tutto il nuovo da venire. Un altro approccio fa leva sulle “emergenze”, in realtà mali incancreniti che puntualmente si ripropongono ogni anno.


E poi ce n’è uno, quello che sento più mio, che affonda da qualche parte tra la testa e lo stomaco. Perché è lì dentro che sento una stretta davanti a un nuovo anno scolastico. Sarà il mio dodicesimo anno da preside dell’istituto comprensivo Sperone-Pertini, sette plessi di scuola d’infanzia, elementare e media per 1.200 alunni dai tre ai quattordici anni nella periferia sud-est di Palermo. Nei quartieri Brancaccio e Sperone precisamente. Brancaccio feudo dei fratelli Graviano, implicati nelle più gravi stragi mafiose e mandanti dell’omicidio di padre Puglisi; lo Sperone – Brancaccio vista mare – è oggi un grande supermercato della droga a cielo aperto, attivo 24 ore su 24, 365 giorni su 365, con un giro di affari di 1,8 milioni di euro all’anno. 

   
Se è vero che la scuola è fondamentale dappertutto per la portata del suo mandato educativo e sociale, qui la scuola ha dei doveri speciali, deve essere di più, deve orientare vite, essere luce. Io lo so bene. Sarà per questo che sento la morsa dentro, una specie di richiamo, di esortazione costante a fare vicino e a guardare lontano. Con questo stato d’animo affronto le carte.

  
A scuola settembre è un secondo capodanno. Con la certezza che Pasqua sarà sempre di domenica, scorro il calendario per fissare l’inizio delle lezioni, abbozzare quello che in scuolese si chiama “il piano delle attività” con tutte le riunioni possibili e nemmeno immaginabili, e con un lieve senso di colpa quasi di nascosto a me stessa vado alla ricerca di ponti interessanti, verso una nuova vacanza.

  

Il 15 settembre saranno 31 anni dall’omicidio di padre Puglisi. Qualche post con poche e nemmeno tanto sentite parole. Come il 19 luglio e il 23 maggio

   
Torno al calendario con un’altra ricerca in mente. Da qualche tempo ho sviluppato una particolare forma di ipersensibilità, come accade quando si è troppo spesso esposti a fattori ambientali irritanti. 


A quando la prossima commemorazione? Il 3 settembre: quarantadue anni fa Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto dei 100 giorni a Palermo, fu ucciso insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo. 


Scendo con lo sguardo verso i giorni seguenti: il 15 settembre quest’anno viene di domenica, saranno trentuno anni dall’omicidio di padre Puglisi. Né trenta, né trentacinque: val bene una messa – manco cantata – qualche post con poche e nemmeno tanto sentite parole, una citazione attinta frettolosamente dal web. E già la sera del 15 converrà sgattaiolare via, Dio non voglia che venga fuori che a Brancaccio della chiesa e dell’asilo nido fatti toccare con mano – anzi con rendering – a Papa Francesco nel 2018 non c’è nemmeno la prima pietra.

  
Il 15 settembre come il 19 luglio, il 23 maggio e via scorrendo il calendario somigliano a grani di rosari per recitare (mai parola fu più adatta) orazioni di circostanza.  Sì, perché in Italia, e a Palermo in particolare, abbiamo un calendario tutto nostro: non quello dell’avvento né quello lunare, ma quello dei morti ammazzati dalla mafia. O insieme alla mafia.

 
Solo del giorno della morte eh, che su ciò che è successo intorno e in seguito meglio glissare: le voragini di Capaci e via D’Amelio sono forse troppo vaste e profonde per essere scandagliate nelle aule di giustizia.


Del resto il ricordo della morte è facile: una foto, una frase dedicata e il gioco è fatto, domani è un altro giorno, un altro morto.


Il ricordo della vita invece, quello è impegnativo. Scava, approfondisce, ricostruisce scenari, soprattutto rilancia temi, valori, intuizioni investigative, modi di essere e di lavorare che – oggi come trent’anni fa e più – sono scomodi perché rigorosi, inflessibili, coerenti.


In questa amnesia selettiva le cerimonie in memoria delle morti sono diventate fiere delle vanità, un red carpet di presenzialisti di morettiana memoria.
Perché la tensione morale che andava all’unisono con il presidio delle strade durante i vespri siciliani del post stragi non si sente più? 


È forse l’effetto della cattura di quel manipolo di utili manovratori di tritolo e telecomandi, ultimi capi morti-in-vita di una mafia morta? Sarà l’amara constatazione del sacrificio di tante verità alle carriere?


Oppure di un certo modo di fare antimafia. L’antimafia poi… Quale? Tra mafia, antimafia e mafia nell’antimafia quest’ultima ha commesso il peccato imperdonabile di aver infranto la speranza, di avere lordato il sacrificio dei giusti, di avere iniziato il moto perpetuo del ballo in maschera in cui davvero è difficile capire la vera identità di chi sta sotto.

  

I bambini usati come comparse. Come gli alunni di una prima media di qualche anno fa, ingannati sul premio di un concorso del ministero

   
Perché l’antimafia farlocca può assumere tanti volti e tante voci, come in una gigantesca messinscena, in cui bambini e bambine vengono usati come comparse. Ne sanno qualcosa gli alunni di una nostra prima media di qualche anno fa: l’approssimarsi del 23 maggio, un concorso del ministero dell’Istruzione dedicato agli agenti di scorta, la vittoria con un videoclip e una canzone inedita, un premio pazzesco, nientepopodimeno che un viaggio negli Stati Uniti, a Quantico, la sede dell’Fbi. Cantano in diretta dall’aula bunker, viene ribadito il premio, i rappresentanti istituzionali su Rai 1 fanno addirittura a gara su chi di loro li accompagnerà.


E poi? Niente premio, abbiamo scherzato. A esser precisi, lo stato ha scherzato. 


E non con ragazzini di un quartiere qualunque, siamo a Brancaccio, allo Sperone. Molti degli alunni di quella prima media avevano parenti in carcere, arrestati dai poliziotti a cui loro avevano dedicato una canzone. Ci avevano creduto, per una volta, insieme agli insegnanti e anche ai genitori più recalcitranti. 


Lo stato non ci ha fatto una gran figura, prestando il volto alle maschere dell’antimafia fasulla. The show must go on, si troveranno altre comparse.


E’ forse arrivato il momento di smontare palcoscenici, e anche di rivedere il modo di affrontare il tema del contrasto alla criminalità organizzata, a partire dal linguaggio, specialmente con i più giovani. Come vanno le cose adesso, l’inizio è già la fine: la morte al centro del ricordo, e tutto intorno l’insostenibile pesantezza di marcette in re minore. 


La vita delle persone di cui si ricorda la morte interessa ancora a qualcuno? Quel testimone di studio, di impegno, di perseveranza, di ostinazione nel contrasto alle mafie davvero sta a cuore passarlo? O è più comodo tenere i santi laici sugli altari, per accendere un cero una volta all’anno, poi solo fiori di plastica.


Se li chiamiamo eroi è pure meglio: loro erano eroi, dunque creature provviste di doti speciali, di super poteri. Loro sì che potevano ingaggiare – e a tratti perfino vincere – una reale battaglia contro la criminalità organizzata, contro il malaffare, contro chi detta la legge della sopraffazione. Potevano perfino tenere in considerazione e accettare il rischio di morire per la causa. Noi comuni mortali no. 


E così, santificando ma non onorando i morti, si crea una generale assoluzione per i vivi, e una deresponsabilizzazione perché – si sa – siamo umani, deboli e fallaci.
A distanza di più di trent’anni dalla macelleria di Palermo, dove furono trucidati poliziotti, giornalisti, giudici, carabinieri, perfino un prete forse la consegna per chi è rimasto è proprio fare scendere questi giusti dagli altari e farli camminare ancora tra di noi, soprattutto tra coloro che non erano nati negli anni Ottanta e i primi anni Novanta. 


Almeno a scuola, lontano da telecamere e da fotoreporter, forse si può ancora provare a non indossare maschere, e avere l’onestà di portare ai più giovani una narrazione lontana dall’epica degli eroi irraggiungibili, senza macchia e senza paura. 


Ancora, osare essere in controtendenza rispetto al mainstream e smontare dall’interno delle aule scolastiche la mitizzazione del male, dalle serie televisive ai documentari su capi, capetti, padrini e dittatori. Forse vale la pena dircelo e ripetercelo pure che questi prodotti, fruibili a qualsiasi ora su qualsiasi dispositivo, hanno una pericolosa forza attrattiva, suscitano curiosità, interesse, spesso ammirazione per i protagonisti, esaltandone lusso, vantaggi personali, esercizio del potere. 


Con onestà, almeno a scuola dirselo che l’antimafia reale si può fare dando opportunità di cultura, di sport, di viaggi, di socialità sana piuttosto che partecipando a parate e incontri ormai sempre più spesso occasioni per polemizzare su chi va, su chi non va, su chi è il vero antimafioso doc e chi lo è un po’ meno, manifestando la divisione civile che è lo specchio di conflitti sociali e rendite di posizione o di ruoli da cui non ne esce bene proprio nessuno (e che esempio diamo ai piccoli?).

  

Bambini e ragazzi ogni giorno lungo il percorso casa-scuola devono abbassare testa e sguardo davanti ai pusher schierati lungo la strada

   
Guardiamo nelle pieghe: quale credibilità ha una scuola che si trova in una delle molteplici sacche di illegalità dei centri e delle periferie urbane se da un lato parla a bambini e ragazzi di rispetto della dignità propria e altrui, di diritti, di stato e poi quegli stessi bambini e ragazzi ogni giorno lungo il percorso casa-scuola devono abbassare testa e sguardo davanti ai pusher schierati lungo la strada. 


Non sono situazioni ipotetiche: basta condividere il percorso di Gaia, Vincenzo, Kevin, Sofia in un giorno qualunque in un quartiere qualunque tra quelli definiti “a rischio”. C’è dell’eroismo nel rimanere bambini, preservare l’innocenza, coltivare i propri sogni di futuro e credere a quello che si ascolta a scuola più che a quello che si vede per strada. 


Il rischio dell’incoerenza è giusto a poche fermate del tram. Cosa penserà Christian, o Paola, oppure Gabriele rientrando nel proprio quartiere al ritorno da una manifestazione, una di quelle che si fanno in centro città? In loro si anniderà il convincimento che tra la legalità e l’illegalità, tra la scuola e la realtà, tra la libertà e il giogo mafioso c’è la vita, la vita quotidiana. E la strada. Non quella che si riempie di un corteo festante, ma quella che percorrono ogni giorno.


Finché Gaia, Vincenzo, Kevin, Sofia, e ancora Christian, Paola, Gabriele saranno considerati solo figli degli altri, non ci graffieranno dentro e saranno vittime inevitabili di una evidente sospensione delle ostilità tra lo stato e l’antistato. Perché se quello che accade per le strade si conosce, non far nulla per cambiarlo sa tanto di abbandono, di rinuncia, di resa.
Nelle estese waste land d’Italia, in cui spesso l’ultima frontiera etica è la scuola, come è possibile parlare a bambini e ragazzi che se la mafia dei pezzi da novanta non ce l’hanno a casa, di certo hanno una certa familiarità con una specie di “mezzamafia”, di manovalanza di bassa ma costante forza, di mafiosità che costituisce l’habitat domestico e ambientale?


Palermo, e non solo allo Sperone, a Brancaccio o allo Zen, è più di quanto siamo disposti ad ammettere quella che nel 2017, a 25 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, Franco Maresco decise di raccontare in La mafia non è più quella di una volta: indifferente, a tratti irriverente, se non apertamente ostile nei confronti dei giudici uccisi e dei poliziotti delle scorte.
La scuola non rischia di fare un flebile controcanto a quanto percepito, respirato tutto intorno? Forse. Ma se anche fosse, val bene provarci. Perché la sua voce secondaria ma non sottoposta, in bocca a insegnanti credibili e autorevoli perché coerenti, può farsi spazio e indebolire le fondamenta della mafiosità come un fiume sotterraneo.

  

Il boss Maurizio Di Fede aveva capito il ruolo della scuola: voleva impedire che la nipotina partecipasse a un’iniziativa in memoria di Capaci

   
Bene l’aveva capito il boss di Brancaccio Maurizio Di Fede che nel 2019 voleva impedire che la nipote di 7 anni partecipasse con i compagni a un’iniziativa in memoria della strage di Capaci. “Se gli mandi la bambina sei una sbirra” disse urlando alla mamma della piccola. “Noi non ci immischiamo con Falcone e Borsellino… queste vergogne… alla Magione, là sono nati. Non ti permettere”. 


Chissà se Di Fede avrebbe mai immaginato che le sue parole sono la risposta più efficace sull’irrinunciabilità a parlare di mafia, a evidenziare e contrastare tutte le offese alla dignità e a non permettere l’oblio sui caduti.


A una condizione: più strade, meno altari. Perché di antimafia in auto blu, di strade di quartiere troppo diverse da quelle percorse in corteo e di santini da venerare a parole una volta l’anno e poi rinnegare nei fatti nella quotidianità, tutte e tutti – bambini e bambine in testa – possiamo farne a meno.

Continua a leggere...

Autore
Il Foglio

Potrebbero anche piacerti