La sorpresa di “Valentucci” in una fashion week di pura leggerezza

  • Postato il 17 giugno 2024
  • Di Il Foglio
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La sorpresa di “Valentucci” in una fashion week di pura leggerezza

Siamo tutti d’accordo che in tempi difficili come questi e avendo un po’ sbagliato i tempi di ingaggio del nuovo direttore creativo (le sostituzioni di primavera arrivano quando il predecessore ha già mandato in produzione la collezione successiva) un marchio come Valentino non potesse attendere la sfilata di settembre per comunicare anche visivamente, anche con i “prodotti”, il cambio di direzione. Però il comunicato e il link che poche ore fa hanno portato all’attenzione del mondo la collezione pre-fall 2025 di Alessandro Michele, poeticamente intitolata “Avant les débuts”, “prima degli inizi”, ha colto tutti un po’ troppo di sorpresa, e non interamente in modo positivo.

Innanzitutto, e ancora una volta, per il timing: diffondere un’informazione di questa potenza nel giorno, anzi, due ore prima, la prima conferenza stampa di Sabato De Sarno, ex numero due della creatività di Valentino e direttore creativo di Gucci da un anno, non è quello che si definirebbe un fair play alla Sinner. Fra l’altro, Valentino sta entrando da quasi un anno, progressivamente, nell’orbita di Kering, dove si è appena ritenuto necessario nominare un chief brand officer del gruppo, cioè un manager incaricato di armonizzare le strategie. Laurent Claquin entrerà nel pieno delle proprie funzioni fra due settimane. Visto il clima, gli facciamo i nostri migliori auguri. Secondariamente, i capi: sì, è vero, in quei 171 look elaborati in meno di tre mesi, uno sproposito, vi sono tutti i codici di Valentino degli Anni Sessanta e Settanta e anche un bel po’ di quel magico merchandising che solo il ceo Jacopo Venturini è in grado di elaborare e che si è dispiegato in tutta la propria forza: adesso si capisce perché negli ultimi due mesi e mezzo si fosse trasferito a Palazzo Mignanelli a Roma. Doveva mettere a terra, mai il lessico del basket fu più appropriato, l’approccio di Michele. Le borse sono splendide, di belle proporzioni e massimizzano il valore del logo pur senza sfacciataggine, gli abiti ricordano quelli che in effetti indossava Marisa Berenson quarant’anni fa, i cappotti sono eleganti e sottili, proprio come le nostre mamme li portavano nei Settanta, e con lo stesso motivo a V. Ma quei codici sono nascosti sotto la consueta iper-stratificazione che quasi dieci anni fa fece di Michele un fenomeno mondiale e che oggi, dopo una pandemia, con due guerre alle porte in corso fra Europa e Medio Oriente, suona un po’ vintage, un po’ modello “Cavalli e Nastri”, espressione massimalista della vendita di vintage a Milano (il conio non è mio, l’ho rubato a un collega linguacciuto in privato e soave in pubblico, è geniale).

Non ci sembrano più divertenti come lo erano anni fa le pantofole di pezza dell’albergo stampate paisley e abbinate al calzino bianco; abbiamo già visto molte volte, altrove e cioè da Gucci, il trinomio turbante-occhialoni-orecchini a goccia, per non dire dei fermacapelli di Swarowski: quando, al momento della nomina di Michele, scrissi che per portare il fatturato di Valentino ai 2 miliardi di euro ai quali punta François Henri Pinault, nell’atelier romano avrebbero dovuto allargare l’offerta e rassegnarsi ai gadget, non mi aspettavo che sarebbero arrivati così presto e non nella forma che avevo ipotizzato in iperbole e per paradosso, le mollettine. E invece eccole lì, nuovo entry price del brand che i social hanno già ribattezzato “Valentucci” e dove Michele ha portato innanzitutto se stesso e la propria visione: i migliori auguri anche a lui, perché lì, nell’atelier della couture, lavorano le più favolose sarte dell’occidente conosciuto, vere star dell’ago e del ricamo, e vorrei vederle preservate e valorizzate tutte, e non a costo di rivaleggiare con Accessorize. In queste concitatissime settimane di giugno, fra cambi di direzione creativa attesi a breve e contratti in scadenza, negli uffici che lavorano specularmente a quelli di Valentino, e cioè quelli di Gucci, hanno invece lavorato per sottrazione, eleganza e concretezza: d’accordo, De Sarno non ha ancora abbandonato i propri intensissimi anni trascorsi in Valentino, e questo è molto evidente sia nell’abbinamento dei colori (il rosa cupo e il prugna per esempio) sia nelle camicie a stampa floreale che però in questa collezione Gucci uomo 2025 sono ricamate o ricoperte di perline. Sempre che gli lascino il tempo per lavorare e portare all’attenzione del mondo la sua moda “concreta”, fatta per adattarsi “a chi la indossa e non il contrario”, il percorso di De Sarno da Gucci avrà ancora bisogno di un po’ di fine tuning, di adattamento, ma è chiaro che questo percorso sia stato intrapreso: divertenti, per esempio, le giacche utility rivestite di frange di perline colorate, ma anche le giacche in cotone corte con la zip, favolose le polo a maniche lunghe lavorate a mano con un intarsio di paillettes, con un effetto sinuoso che spero davvero verrà riproposto a settembre anche al femminile. Dice De Sarno di “amare gli incontri”, e questa collezione porta, nei colori come nei tessuti e nelle forme, il mare, anzi il surf in città in mille dettagli, dalle frange ai ricami con effetto trompe l’oeil (grande ricorso stilistico per molti brand) ai fiori di ibisco “che per me sono il fiore dell’estate”.

In prima fila, Marco Balich e Francesca Bellettini, numero due del gruppo, la donna più potente della moda mondiale, approvano. A pochi metri da loro, Ghali scatta foto. La moda, anzi fare moda, viverla in prima persona, è una droga potente, come riconosceva pochi giorni fa in un incontro riservato Silvia Venturini Fendi, direttrice creativa della linea uomo di Fendi, maison che si prepara a festeggiare il centenario a Roma fra un anno. Rimase folgorata dall’adrenalina delle passerelle, dal senso di amore e di potere che ti trasmettono i flash “a sei anni, sfilando come modella”: nessuno aveva mai spiegato in modo più semplice, diretto, esaustivo, il motivo per il quale da questo piccolo sistema egoriferito, esclusivissimo nonostante le pretese di inclusione, crudele e divertente, nessuno voglia uscire mai, neanche in questo momento dove davvero, ne parlavo alla presentazione di Tod’s con il direttore generale Carlo Alberto Beretta, il rallentamento degli ordini dalla Cina ha messo in ginocchio il sistema manifatturiero italiano.

Gli unici brand che stiano ottenendo buoni risultati sono quelli più forti in Europa. Sembrerebbe un paradosso, e invece non lo è: a dispetto del conflitto in Ucraina e delle incertezze di alcuni mercati, in primis Gran Bretagna e Germania, il boom del turismo è ancora, sebbene non per tutti, garanzia di fatturato. Negli ultimi tre anni ha chiuso solo in Italia oltre il 20 per cento delle boutique; un dato che si è riverberato anche nel calo delle presenze di compratori nazionali a Pitti Uomo: come dice il ceo Raffaello Napoleone, se nell’edizione conclusa a metà della scorsa settimana vi è stato un leggero aumento di buyer stranieri, il calo del 7 per cento dei compratori italiani dimostra che il mercato va polarizzandosi sempre di più, e chi compra ha bisogno di certezze. Va in questa direzione la maggior parte delle collezioni uomo viste in questi giorni: già al tramonto il “quiet luxury”, torna una moda bella, leggera, portabile, di proporzioni e tessuti impossibili da riproporre nel fast fashion. Ne hanno dato ottima prova, rafforzando al contempo il proprio stile, sia Zegna sia Armani (di solito nell’uomo la sua prova più innovativa ed efficace è Emporio; questa volta ha convinto invece l’abbinamento di tessuti leggeri e colori polvere della collezione Giorgio Armani, le forme morbide e rilassate, il bisogno di leggerezza del vivere che traspariva da ogni capo). Quindi, Prada: il tandem Raf Simons-Miuccia Prada questa volta era molto inclinato verso lo stile amato dal designer belga, con risultati molto interessanti nelle sue pièces e nelle sue techniques de resistance che sono i volumi e il gusto per il trompe l’oeil, visibilissimo delle maglie e nelle polo, costruite come t shirt, nelle cinture dei pantaloni, applicate come decori, e nelle camicie che prendono nuova vita e forme inconsuete grazie a dettagli in fil di ferro nel colletto e nelle punte. E’ il “potere della realtà, in un mondo dell’immaginario” come dicono da Prada, che invita a mettere in discussione la contingenza delle percezioni, a “riesaminare le cose da vicino”, e come peraltro fa anche un altro dei grandi interpreti della moda di questi anni, J.W. Anderson, con una collezione che rilegge i volumi dei bomber, allunga e deforma il jersey delle t shirt in abiti da sera, alleggerisce e rende divertenti anche gli shorts di jeans, fermati da cinture, come li avrebbero apprezzati anche nel Seicento dei rhingrave, i pantaloni al ginocchio sbuffanti.

Gioco di volumi anche da John Richmond, che sembra aver focalizzato nuovamente il proprio core design: i jeans ampi come gonne, i pantaloni costruiti come hakama giapponesi, di lunga tradizione anche fra gli young rebel inglesi, piaceranno di sicuro anche alle ragazze. In sintesi, le tendenze. I colori del mare, dalla spuma (Giorgio Armani) al turchese, della terra, dal sabbia (Tod’s) al mattone e il bruno (incantevole quello di Zegna: il marrone è tinta difficilissima), dal polvere al grigio (ormai ne è re Brunello Cucinelli), illuminati dal verde line (Gucci) e il giallo (quasi tutti). Il target: più i giovani dei meno giovani, dati i prezzi medi si suppone anche i diversamente giovani. Le lunghezze: molti bermuda (appunto), numerosi pantaloni ampi o stretti a scendere verso la caviglia (Emporio). Le calzature: slip on, ma anche pantofole in pelle o in maglia, a punta tonda (Fendi e Gucci), o loafer in camoscio da portare come mules (Tod’s). Per tutti, un gran lavoro sui colletti delle camicie. L’uomo richiede sempre uno sforzo di inventiva maggiore.

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Il Foglio

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