La sfida difficile: perché la Serie A vuole portare il campionato negli Stati Uniti

  • Postato il 1 agosto 2025
  • Di Panorama
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Non solo la sfida tra Milan e Como a inizio febbraio 2026, sfrattata da San Siro occupato dalla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali di Milano Cortina. La Lega Serie A voleva portare all’estero, specificatamente negli Stati Uniti, tutta la prima giornata della stagione che scatterà a fine agosto. La rivelazione del presidente Ezio Maria Simonelli, che ne ha parlato al Corriere della Sera rammaricandosi per non essere riuscito a completare il disegno (“Sarebbe bello poterlo fare in futuro, quando magarti ci saranno regole più permissive”) fa discutere e apre un nuovo fronte per il calcio italiano.

Già aver spedito la Supercoppa Italiana in giro per il mondo è stato ed è tuttora tema divisivo. L’evoluzione del format a quattro squadre e gli accordi con l’Arabia Saudita rappresentano un successo dal punto di vista commerciale (23 milioni di euro ogni edizione con un minimo garantito di 92 nel prossimo ciclo del contratto) e un’opportunità per la Serie A di promuoversi in una delle aree maggiormente interessate a investire nel pallone. Eppure, ogni anno i club protestano per la fatica di trasferirsi armi e bagagli nel deserto in mezzo all’inverno e i tifosi mal digeriscono l’idea di un trofeo assegnato lontano dalle liturgie tradizionali.

La verità è che così fanno tanti, prima di tutto la Liga spagnola che è stata apripista sul tema, e non è detto sia sbagliato copiare un modello che funziona e che fornisce al sistema risorse sempre necessarie e opportunità di sviluppo del brand e del business. Il campionato, però, è ancora oggi un tabù non toccato da nessuno e non solo perché a vietare di andare all’estero sono prima di tutto i regolamenti internazionali.

Perché la Lega Serie A vuole portare il campionato negli States

Per spostare Milan-Como di febbraio a Perth, Australia, la Lega Serie A sta compiendo una lunga trafila burocratica. Ha ottenuto il nulla osta della Figc, ma attende il via libera di Uefa e Fifa prima di procedere con il piano operativo. Programmare tutta una giornata di campionato fuori dai confini, però, avrebbe alzato l’asticella ulteriormente e davanti a questa considerazione, come ammesso dallo stesso Simonelli, il progetto si è arenato in attesa di tempi migliori e regolamenti (sensibilità) differenti.

Perché la Serie A vuole andare a giocare negli Stati Uniti è presto detto. Ai nastri di partenza della prossima stagione oltre la metà delle società farà capo a proprietà straniere (11 su 20) e di queste la stragrande maggioranza con provenienza nordamericana: Atalanta, Bologna, Fiorentina, Inter, Milan, Parma, Roma e Verona. Impossibile sorprendersi, dunque, se chi mette i soldi abbia voglia di portare il prodotto del proprio investimento più vicino a casa. Anche perché, pur essendo questa l’epoca del boom saudita, gli Stati Uniti continuano ad essere un mercato molto interessato al calcio europeo e a quello italiano in particolare.

Esportare il campionato negli States, insomma, significherebbe dargli maggiore visibilità e consentirgli di creare nuove opportunità economiche, commerciali e magari finanziarie. Sarebbe anche un unicum, visto che nessuna delle altre leghe top si è spinta fino a questo punto. Dal 2023 la ricchissima e all’avanguardia Premier League ha varato la Premier League Summer Series in tournée internazionale, sul modello della NBA. Quando si torna a fare sul serio, però, i club inglesi tornano a casa.

L’esperienza dell’Eurolega ad Abu Dhabi e il legame con i tifosi locali

L’altra faccia della medaglia, infatti, è capire se le opportunità di allargare il giro d’affari esportando il core business del proprio prodotto (il campionato nazionale) siano superiori o no rispetto al gesto di rottura con i propri clienti principali. Che, nel caso delle squadre di calcio, rimangono i tifosi locali ed europei. Da lì arrivano tre quarti dei ricavi complessivi tra diritti tv, premi per le competizioni, ticketing e merchandising. Vale la pena spezzare il filo che lega al territorio, seppure per una settimana, o si rischia di danneggiare l’immagine di un evento (il calcio europeo) che si nutre anche della passione che lo alimenta e che lo rende unico per trasferirla in una sorta di laboratorio asettico? La discussione esiste anche a livello Uefa dove si è evocata la possibilità di vendere altrove la finale della Champions League o, addirittura, un format da final four sul modello dell’Eurolega di basket che è andata a giocarla ad Abu Dhabi.

L’esperienza del Mondiale per Club allargato a 32 squadre, voluto dalla Fifa in rotta di collisione con la Uefa per il controllo del calcio internazionale per club, è stata contraddittoria. Non un flop, come tanti in Europa speravano, ma nemmeno il successo assoluto che Gianni Infantino sognava. Quasi certamente si ripeterà, fuori dagli States, perché i soldi fanno gola a tutti, però l’immagine è stata quella di un torneo in cui i picchi di interesse sono stati generati da realtà geograficamente più vicine al luogo di svolgimento della manifestazione. Il calcio rimane una grande passione popolare, insomma. Eventuali spostamenti vanno maneggiati con cura.

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Panorama

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