La Serie A ai tempi dell’inflazione: senza soldi al calciomercato servono le idee. Ma mancano pure quelle

  • Postato il 23 agosto 2025
  • Calcio
  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Signora mia, dove andremo a finire: ai miei tempi con 10 euro ci mangiavi un mese intero, oggi non bastano più per una settimana!”. Questa scenetta, a cui potete assistere quotidianamente in qualsiasi mercato del Paese, immaginatevela replicata pari pari, solo sul calciomercato, dove i 10 euro sono milioni, e i vari Marotta, Tare, Comolli, Manna, Massara, nei panni delle sconsolate vecchiette alle prese con il caro vita. È l’inflazione del pallone, che come quella reale colpisce sempre i più deboli, cioè la povera Serie A.

Se c’è una tendenza che ha accompagnato tutta l’estate e determinerà il campionato che verrà, è l’impotenza delle nostre squadre sul mercato globale. I nostri club hanno fondi limitati e si accorgono presto che col budget a disposizione non riescono minimamente a coprire tutti i loro bisogni. E ci sarà pure una qualche retorica populista nel lamentarsi del presente e rimpiangere i tempi passati, quando tutto costava meno e si stava meglio. Ma certo ormai come ti giri e ti giri, partono schiaffoni a sette zeri. Per meno di venti milioni non prendi nemmeno un terzino. Per un attaccante devi rovinarti. Se poi vuoi puntare sul made in Italy peggio ancora, gli azzurri forti (o presunti tali) sono pochi, e chi ce li ha se li fa pagare caro. Sta di fatto che con i soldi di un intero mercato o compri solo uno o due giocatori, lasciando scoperti interi reparti, o li spalmi su più acquisti che però non migliorano davvero la squadra titolare.

È quel fenomeno che si chiama inflazione, che comporta l’aumento generalizzato dei prezzi nel tempo e di conseguenza la riduzione del potere d’acquisto, con cui tutti noi facciamo i conti ogni giorno nel nostro piccolo. E il ricco – ma mica tanto pallone – non fa eccezione. Qui le cause speficifiche sono molteplici. Lo strapotere economico dei club inglesi, a cui poi si è aggiunta da un paio d’anni la bolla saudita, che ha ulteriormente drogato il mercato, generando ovunque aspettative di offerte folli. Se ci mettiamo anche la rinascita di alcuni mercati periferici (Turchia, Brasile), e il fatto che tante squadre che storicamente producono talenti si sono talmente rafforzate con le plusvalenze che ormai non hanno più urgenza di svendere, si capisce la progressiva marginalizzazione delle italiane.

Che sul mercato non potessimo più competere con le top europee lo sapevamo da tempo. Tutti i talenti migliori finiscono in Premier e da lì noi possiamo pescare solo cavalli di ritorno che sembrano bolliti, sperando di fare l’affare (ogni tanto succede, molto più spesso no). In Spagna e Germania, Real, Barcellona (nonostante i debiti) e Bayern Monaco fanno man bassa. Ciò che fa impressione, e di cui si è avuta la definitiva conferma quest’estate, è che ormai non siamo competitivi nemmeno sui mercati di secondo o addirittura terzo livello. Facciamo fatica a comprare in Francia, Portogallo, Olanda, persino Belgio, perché anche lì le richieste per i giocatori migliori, che hanno dimostrato già qualcosa di importante, sono esose per le nostre tasche. Emblematico il caso di Jashari, la telenovela dell’estate rossonera, alla fine arrivato sì al Milan, ma dopo infinite sofferenze, ed esattamente alla cifra (altissima) pretesa dal piccolo Bruges: quasi 40 milioni, per un centrocampista svizzero con alle spalle solo una buona stagione nel campionato belga. Così come la Juventus non è riuscita a scontare nemmeno un centesimo dal riscatto di Francisco Coinceicao dal Porto. Ma sono solo due esempi.

Il campionato che vedremo ne risentirà tanto: magari di qui al 31 tutte risolveranno i loro problemi, ma ad oggi che inizia la Serie A le squadre candidate al titolo sono semplicemente incomplete. La Juve paralizzata. Il Milan che ha acquistato sempre a saldo zero con le cessioni (anzi proprio positivo). Gasperini alla Roma aspetta ancora i giocatori per la sua rivoluzione tattica. L’Inter per la prima volta dopo anni ha speso, e anche abbastanza, però distribuendo la cifra su tre-quattro giocatori (come prevede la ricetta di Oaktree e dei fondi di investimento) non ha comprato nemmeno un titolare per rinnovare una squadra vecchia e stanca. L’unica eccezione è il Napoli, che ha il vento in poppa sul campo e sul mercato per lo scudetto e le cessioni di Osimhen e Kvaratskhelia, e infatti ha potuto investire quasi 200 milioni: ma spendendo un centinaio soltanto per il trio Milinkovic-Savic, Beukema, Lucca, tre riserve prese da provinciali di Serie A, è difficile avere la certezza che si sia migliorato davvero (e poi ha avuto la tegola Lukaku).

Ecco, forse è proprio il nuovo attaccante azzurro che dovrebbe raccogliere la pesante eredità di Big Rom la sintesi di questo discorso: 12 anni fa, per 37 milioni di euro il Napoli acquistava Gonzalo Higuain, che veniva da una stagione non proprio esaltante ma era in maniera indiscussa uno dei centravanti più forti al mondo, ancora 26enne e con oltre 100 reti all’attivo nel Real. Oggi, con gli stessi, prendi la punta dell’Udinese, che a più o meno alla stessa età ha raggiunto per la prima volta la doppia cifra. In poco più di un decennio, il prezzo di una punta è praticamente raddoppiato (oggi per un bomber di livello internazionale servono almeno 70-80 milioni). Ma il fatturato delle nostre squadre non è aumentato così tanto. Senza soldi, ascendente e prestigio, non resterebbe che lo scouting puro: andare a pescare i talenti grezzi, prima ancora che finiscano sulla bocca di tutti e diventino imprendibili. Rifugiarsi nelle idee, ammesso che bastino. Ma a vedere il modo scomposto con cui si sono mosse tante società sul mercato, il sospetto fondato è che non ci siano nemmeno quelle.

X: @lVendemiale

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