La rivoluzione déco torna alla ribalta tra razionalismo e libertà

  • Postato il 14 ottobre 2025
  • Di Panorama
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“La vita di una donna moderna è rapida, frenetica e il creatore deve vestirla di conseguenza”, così Jean Patou descriveva la sua donna ideale. La sua musa era l’antesignana del girl power di oggi che, proprio in quegli anni, i roaring twenties, non solo per la prima volta lavorava, ma fumava, beveva, guidava i nuovi bolidi alla moda e, di notte, si scatenava sulla pista da ballo a ritmo di Charleston, fasciata da abiti sexy, succinti e inondati da frange. E, grazie alle prime suffragette, poteva anche votare. Quell’archetipo femminile, che trovò la sua incarnazione nelle flapper più disinibite come Nancy Cunard e Louise Brooks, assunse un ruolo trainante per quella stagione di ebbrezza edonistica e liberatoria che, nell’arco di un ventennio compreso fra il 1915 e il 1935, travolse un Occidente ansioso di archiviare le drastiche privazioni imposte dal primo conflitto mondiale. Oggi, con la loro verve insolente e anticonformista, le flapper sono più vive che mai. Non a caso a New York in occasione dell’ultimo Met Gala imperniato sulle eccentriche fogge dei dandy di colore degli anni’30, protagonisti della mostra Superfine. Tailoring black style, Madonna è stata paparazzata in un androgino frac di satin griffato Tom Ford, che sarebbe piaciuto al performer Cab Calloway. Poco più in là, Gigi Hadid e Zendaya le contendevano la scena con i loro look mascolini e scintillanti firmati rispettivamente Miu Miu e Louis Vuitton. Nel frattempo, le passerelle invernali di Milano e Parigi, fra linee scivolate dalla vita allungata, forme ad astuccio, accesi contrasti cromatici e un’overdose di frange, hanno sancito la rimonta dello stile déco, lineare e insieme esuberante. È passato, infatti, un secolo esatto da quando a Parigi fu allestita l’Exposition des Arts Décoratifs, che attirò nella Ville KLumière 16 milioni di visitatori. A quel pionieristico movimento, legato a doppio filo alla Bauhaus di Walter Gropius che, in sintonia con la sofisticata frugalità di Coco Chanel, paladina del less is more, propugnava teorie basate su minimalismo, understatement e rigore geometrico, sono dedicate varie mostre fra Parigi e Bruxelles. Non solo per celebrare un importante anniversario, ma anche per rivendicare la grande attualità di quella decisiva rivoluzione del gusto, che lasciò il segno nel costume, nel design, nell’architettura, nella moda, nella grafica e anche nel cinema. Non può, infatti, passare inosservato il sensuale abito di satin scarlatto che Michelle Dockery alias Lady Mary Talbot sfoggia come revenge dress in una scena clou del film Downton Abbey il finale, ambientato nella prima metà degli anni ’30.

La rivoluzione déco torna alla ribalta tra razionalismo e libertà
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Nel cast di Duse, il biopic di Pietro Marcello incentrato sulla celebre attrice di teatro Eleonora Duse, magistralmente impersonata da Valeria Bruni Tedeschi, fra i personaggi del film compare proprio Mariano Fortuny, il sarto spagnolo di fiducia della diva. Amava i pepli, le plissettature e il velluto e divenne quindi l’apripista della svolta déco nella moda.

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Sulla stessa lunghezza d’onda c’era anche il visionario Paul Poiret, al quale il Musée des Arts Décoratifs ha consacrato Poiret, la mode est une fête, una grande retrospettiva aperta a Parigi fino a gennaio. Intuendo la necessità di radicali mutamenti delle fogge, il sarto parigino, affrancò le donne dalla schiavitù del corsetto con lievi creazioni a colonna come quelle delle dame del Direttorio, opulente e dal sapore esotico. Nei suoi mantelli da sera tagliati come kimono e nelle jupes entravés da geisha, il couturier citava i japonismes, in voga in Europa già dal 1854 mentre certi altri modelli più appariscenti, consistenti in gonne a paralume e pantaloni alla turca, occhieggiavano alle vivaci pennellate di Matisse e all’audace tavolozza dei costumi ideati dal costumista Leon Bakst per i Balletti russi di Sergiey Diaghilev. Con le sue stravaganti trovate Poiret ha influenzato vari creatori contemporanei come John Galliano quando era direttore artistico di Dior; l’immaginifico glamour pop di Gianni Versace, che anni negli ottanta ha spesso attinto al repertorio déco; le creazioni di Alberta Ferretti e i look sobri ma assertivi disegnati da Giorgio Armani. Il grande stilista italiano da poco scomparso, più volte ha professato una convinta ammirazione non solo per il modernismo essenziale ed emancipato di Chanel, ma anche per il fervido immaginario del suo acerrimo rivale Poiret. Lo confermano certi riferimenti iconografici presenti nel suo archivio come l’immagine che ritrae la socialite Gertrud Vanderbilt, fotografata dal barone De Meyer. Spesso poi le teatrali toilette delle odalische di Poiret che, coerente con la sua immagine di poliedrico sarto-artista collezionava i quadri dei pittori dell’epoca come Vlaminck e Derain, venivano fotografate da Man Ray, interprete d’eccezione della sponda déco più sovversiva e sperimentale, a cui risalgono gli albori della fashion photography. L’opera del grande fotografo di origini russe (il vero nome era Emmanuel Radnitzki), celebre anche per i suoi cortometraggi e per le ardite soluzioni tecniche, è il tema di due grandi esposizioni monografiche, una a Milano e l’altra a New York: la prima, allestita a Palazzo Reale e la seconda al Metropolitan Museum con il supporto della maison Schiaparelli. A Parigi, Man Ray condivise la sua invenzione più rilevante, la solarizzazione, con la modella Lee Miller, anch’ella fotografa e pioniera del reportagismo fotografico sulle riviste patinate: durante il secondo conflitto mondiale, infatti, Vogue la inviò al fronte per documentare lo sbarco degli Americani in Normandia. Il suo magnifico volto, incorniciato da bionde chiome ondulate secondo la moda alla garçonne, un paradigma femminile androgino caro a Chanel e introdotto proprio nel 1925, fu più volte immortalato nei ritratti di Georg Hoyningen Huene, fotografo aristocratico di origini estoni sfuggito alla rivoluzione bolscevica che si trasferì a Parigi al culmine del periodo déco. Una bella mostra romana Georg Hoyningen Huene. Art, fashion and cinema, curata da Susanna Brown e aperta a Palazzo Braschi fino al 19 ottobre con il decisivo contributo di Zetema, ne ripercorre attraverso 100 scatti la folgorante carriera come esteta e fotografo di punta di Vogue Paris. Questa esposizione illustra anche la sua magnifica ossessione per il mondo classico, l’originale concezione architettonica della composizione ispirata alle innovazioni di Le Corbusier, le brillanti sinergie con Hollywood e il cinema di George Cukor che gli presentò Sophia Loren, e last but not least gli addentellati con Jean Cocteau e altri suoi celebri coevi. Come la leggendaria soubrette di colore Josephine Baker, così emblematica di un’epoca fervida di cambiamenti epocali. Quel felice intermezzo, fra le due guerre mondiali, caratterizzato dalla fioritura di tanti importanti talenti dell’arte e della moda, estende le sue propaggini anche in alcune collezioni di alta moda e prêt-à-porter per il prossimo inverno. A cominciare da Miuccia Prada che, insieme a Catherine Martin, ha creato gli abiti di scena di Carey Mulligan, interprete di Daisy nel film Il Grande Gatsby tratto dall’omonimo romanzo di Scott Fitzgerald. Nella collezione inverno 2025 di Prada, realizzata in tandem con Raf Simons, la designer milanese ha proposto vari essenziali tubini neri, ispirati probabilmente al celeberrimo modello di Chanel, che nel 1926 fu ribattezzato la Ford della moda, ma forse anche ai verticalismi delle figure femminili delle tele di Modigliani, Schiele e Van Dongen, mentre una drammatica cappa di seta color assenzio e profilata di shearling sembrava rubata alla Marchesa Casati, icona dark dell’epoca. Nel défilé di Miu Miu, la colta stilista, spesso paragonata a Elsa Schiaparelli, ha esplicitamente citato in pedana lo charme intellettuale e il brio anticonformista delle flapper, punteggiando i look dello show parigino con accessori tipici degli anni’20 come le cloches in feltro, i boa di eco pelliccia e le calze autoreggenti. Circolano motivi déco come le frange luminescenti di varie lunghezze e gradazioni anche sulle passerelle di Alaïa, Ferragamo, Schiaparelli, Ungaro, nell’alta moda di Zuhair Murad e nel ready to wear firmato Ferrari, nonché nella bellissima collezione di Jil Sander ricca di suggestive iridescenze night and day e di superfici glossy. Puntano sui colori dei dipinti fauves le creazioni flamboyant di Marni, che si addicono a una diva hollywoodiana degli anni’30 o a una star berlinese durante la Repubblica di Weimar. Da Tom Ford, dove Haider Ackermann ha debuttato pochi mesi fa come direttore creativo, le frange sono lunghe e fatali e si tingono di un soave color glicine perfetto per l’attrice Julia Garner, che sarà Madonna nel biopic diretto dalla stessa popstar. Affiora un’allure anni’20 anche in certi pattern astratti di pelliccia rasata e nell’eveningwear di Fendi, contrassegnato da tuniche velate in colori pastello e raso matelassé, incrostate di ricami e orlate di piume, così in voga negli anni ruggenti insieme agli abiti débardeur e agli embellishment stilizzati. È decisamente déco l’intero show prefall 2025 di Lanvin, dove lo stilista Peter Copping, chiamato dopo le sue esperienze in Balenciaga e Oscar de la Renta a rileggere in chiave contemporanea lo spirito della fondatrice, nota negli anni’20 per la settecentesca robe de style e antagonista di Chanel, ha dato il meglio di sé al suo esordio come stilista della fashion house. Il défilé era definito da una serie di tuniche longuette in velluto chevron color caffè, alcuni look drappeggiati e asimmetrici solcati da nervature e lievi plissettature diagonali, e dulcis in fundo da alcuni dress illuminati da un diluvio di paillettes blu notte e da preziosismi da sera con decorazioni caratterizzate da motivi geometrici finemente ricamati in oro, perline e jais applicati su una impalpabile georgette scura. Riprendeva il gusto aristocratico e intellettuale della contessa Mimì Pecci Blunt, blasonata mecenate degli anni’30, il défilé Cruise 2026 di Dior presentato a Roma negli scenografici giardini di Palazzo Torlonia in cui la stilista Maria Grazia Chiuri ha suggellato in grande stile il suo commiato dalla decennale direzione creativa della maison parigina. In passerella spiccavano alcuni regali abiti lunghi demi couture in velluto cangiante, degni di Adrian e di Joan Crawford, sapientemente tagliati in sbieco secondo la lezione sartoriale di Madeleine Vionnet. Della rivoluzionaria regina del godet, innamorata della grecità e dei motivi archeologici dell’antica pittura vascolare ellenica, esistono varie tracce anche nella monumentale retrospettiva 1925-2025. Cents ans d’Art Déco con cui il Musée des Arts Décoratifs a Parigi racconta dal 22 ottobre al 26 aprile il versatile periodo déco. Oltre ad alcuni iconici modelli d’epoca firmati Madeleine Vionnet, Lanvin e Sonia Delaunay, artefice di stampe astratte svelate per la prima volta all’Expo di Parigi del 1925, l’exhibition propone anche una notevole selezione di gioielli firmati Cartier, esposti per la prima volta al pubblico, che nell’iter della mostra si alternano ad alcuni pregevoli esempi di complementi di arredo usati per abbellire gli interni lussuosi dell’Orient Express, inaugurato proprio in quegli anni.

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Sul versante dell’alta oreficeria, Cartier e Van Cleef hanno puntato i riflettori sulla bellezza e la preziosità dei gioielli déco, esaltando i pezzi dei loro archivi, che nacquero proprio in quel momento di elettrizzante euforia, fucina di grandi novità anche nel design dei monili. Le sale del Victoria & Albert Museum di Londra ospitano fino al 16 novembre oltre 300 pezzi storici da caveau, che Cartier realizzò per i Maharajah, la viceregina dell’India e la Begum Aga Kahn, dando prova di grande estro e formidabile perizia artigianale. A Tokyo, invece, fino al 18 gennaio, è possibile scoprire al Metropolitan Teier Art Museum le meraviglie realizzate da Van Cleef nell’exhibition Timeless Art Deco with Van Cleef & Arpels High Jewelry. Per citare, in una delle sue recenti interviste Alba Cappellieri, head of Jewelry Design al Politecnico di Milano, “I temi dei gioielli Déco derivavano direttamente da una realtà dinamica e pulsante, dal lavoro, dallo sport o dalla velocità, per concretizzarsi in composizioni straordinarie e senza paragoni, scandite da motivi geometrici ed enfatizzate dalla scelta di contrasti cromatici evidenti”. Le forme razionali e sofisticate dei gioielli déco, che nelle montature all’oro sostituirono il platino esplorando nuovi tagli di diamanti come il baguette, linee a goccia, in un tripudio di sautoirs di perle coltivate e materiali innovativi come smalti, porcellane e pietre dure dalle sfolgoranti cromie, ricorrono tuttora nell’alta gioielleria di Chanel, Gucci, Bulgari, Damiani e Louis Vuitton. I VIC e i paperoni di oggi prendano nota.

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Panorama

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