La politica estera non si fa a Bruxelles. La lezione di Macron secondo Arditti

  • Postato il 26 luglio 2025
  • Esteri
  • Di Formiche
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L’uscita di Emmanuel Macron sul possibile riconoscimento dello Stato palestinese da parte della Francia è molto più di una mossa diplomatica o di un segnale politico contingente. È, nel merito e nel metodo, la conferma di una verità che l’Unione europea continua a voler ignorare: la politica estera è competenza degli Stati. Punto.

A Bruxelles si continua a evocare, con retorica stanca e inconcludente, l’idea di una “voce unica” dell’Europa nel mondo. Ma i fatti – dalla guerra in Ucraina ai rapporti con la Cina, dal Medio Oriente all’Africa – dimostrano esattamente il contrario: ogni Paese ha una propria visione, una propria rete di alleanze, una propria opinione pubblica da ascoltare. E soprattutto, ogni governo nazionale dispone di legittimazione democratica, di catena di comando sugli apparati militari e di leve economiche concrete. Tutte cose che Bruxelles non ha e che non può avere, almeno finché non esisterà uno Stato europeo. Ma nessuno, nemmeno Macron, è disposto ad accettare una cessione di sovranità di quella portata.

La politica estera, insomma, è materia di governo, perché è governo l’unico soggetto che può assumersi la responsabilità delle scelte sul piano internazionale. È il governo che manda truppe, che firma trattati, che impone sanzioni, che riceve delegazioni e che prende decisioni che spesso coinvolgono la sicurezza dei cittadini. E non può farlo un commissario europeo, né un Parlamento che non ha potere d’indirizzo sugli eserciti e sulle intelligence.

Il caso palestinese è emblematico. L’uscita di Macron, che lascia intendere la possibilità di un riconoscimento unilaterale dello Stato di Palestina, segue mosse analoghe da parte di Spagna, Irlanda e Norvegia. Eppure, ciascuno lo fa per conto proprio, in funzione della propria sensibilità politica interna, dei propri equilibri di alleanze e delle proprie considerazioni strategiche. Altro che “coordinamento europeo”. Se c’è una lezione in questa vicenda è che l’Europa, di fatto, non esiste come soggetto geopolitico. Esistono i Paesi membri. E ciascuno si muove come crede.

C’è anche un’altra verità che torna prepotentemente al centro della scena: l’interesse nazionale. Dopo decenni in cui è stato quasi un’espressione proibita, relegata al lessico della destra “sovranista”, oggi l’interesse nazionale è tornato ad essere la bussola di ogni democrazia matura. Gli Stati Uniti, anche sotto l’amministrazione Trump, non si nascondono dietro formule collettive: difendono i propri cittadini, la propria economia, la propria cultura. Lo stesso fa la Gran Bretagna, e ora anche le democrazie dell’Europa continentale stanno rientrando in questa logica, che è semplice, trasparente e, soprattutto, comprensibile dall’opinione pubblica.

Macron, che pure resta un europeista convinto, sa bene che la legittimazione politica si costruisce a casa propria, davanti agli elettori francesi. E che ogni scelta di politica estera, soprattutto in un contesto infuocato come il Medio Oriente, deve essere letta e compresa innanzitutto all’interno dei confini nazionali. È una regola antica, ma che la retorica europeista ha cercato di smantellare, senza successo.

Le istituzioni europee, a cominciare da Ursula von der Leyen, dovrebbero accompagnare e non contrastare questo ritorno alla realtà. Perché di questo si tratta: di un fenomeno naturale, perfino salutare, che rafforza la legittimità e la responsabilità democratica. E invece troppo spesso si mettono di traverso, in nome di una costruzione istituzionale sempre più astratta. Ma la realtà – quella storica e quella politica – è più forte delle ambizioni personali.

Autore
Formiche

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