La patria potestà sui figli dei mafiosi: dubbi e riflessioni su una scelta poco educativa
- Postato il 24 agosto 2025
- Cronaca
- Di Blitz
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Le recenti sentenze del tribunale dei minori di Palermo che hanno tolto la patria potestà, come si diceva una volta, ai mafiosi sui loro figli fanno riflettere.
Conosciamo la profonda cognizione giuridica ed umana degli autori di queste sentenze, e riteniamo che abbiano studiato le casistiche in oggetto in ogni fattispecie. Sicuramente il primo problema, quello di non fare vivere al minore una condizione di cultura mafiosa, regole e problematiche, viene risolto.
Una sentenza è un bivio per uno Stato, che poi però deve dimostrare di saperlo percorrere in maniera adeguata. Una sentenza del genere applicata in paesi di grandi capacità di welfare, come la Svezia o la Danimarca, avrebbero una catena di responsabilità, presa in carico, servizi sociali, formativi e di orientamento per sostituire l’azione paterna.
Dal padre alla madre

Qui da noi togliamo la patria potestà al padre, e di conseguenza alla famiglia del padre, e affidiamo tutto l’onere alla madre, e alla di lei famiglia. Ogni scarrafone è bello a mamma soje, dicono a Napoli, e anche a Palermo siamo neomelodici. Ma c’è un’analisi di contesto, di comunità, di approfondimento sociologico ed antropologico per cui quella coppia si è formata? Siamo certi che la madre, al di là del suo naturale istinto di protezione, abbia il contesto, le capacità culturali, le risorse economiche e le sufficienti spalle larghe per provvedere al minore da sola?
Perché molto sembra un tentativo di risparmiare, come sempre, da parte dello Stato. Risparmiare responsabilità, risorse umane, che sul sociale specialmente al Sud, al di là di una certa retorica narrativa alla Mare Fuori, sono terribilmente scarse.
E poi se togliamo un figlio al padre mafioso e lo facciamo vivere nello stesso “mandamento”, nella stessa comunità, possiamo raggiungere dei risultati positivi per la crescita sana e responsabile del minore? Oppure è Il quartiere, la comunità ad essere fuorviante, pericolosa, degradante.
È in corso a Palermo il dibattito sulla percezione da far west di molte zone franche della città, c’è stata la sparatoria qualche mese fa a Monreale per futili motivi, ma per devastanti problemi sociali di interi quartieri, che ha lasciato a terra morti tre giovani ragazzi innocenti. Siamo sicuri che il problema sia il padre mafioso, e assolviamo, per carenza di coscienza sociale e risorse finanziarie, la comunità in cui il minore vive?
I figli dei mafiosi
La responsabilità penale è personale, e le sentenze riguardano la sfera di influenza di singole persone. Ma qui bisognerebbe alzare l’asticella, anche di cultura giuridica, non solo punire il mafioso degradandolo nella sua funzione paterna, ma tentare, prendendosene carico di tutoria legale, civile e formativa il minore, magari affidando il minore ad altre comunità dove non incontri più il fenomeno mafioso, condannando la sua comunità originaria, cioè il Comune, al pagamento delle spese di presa in carico.
Tenere il figlio di un mafioso nello stesso contesto del padre sembra come affidare un minore abusato ad una congregazione di pedofili. Il mafioso non esiste senza un contesto mafioso, di regole praticate da comunità. Togliere la paternità sembra un daspo per non andare allo stadio, e punisce sia il padre che la di lui famiglia, recidendo, giustamente, a tavolino legami, ma al minore procura nuove opportunità di crescita il rimanere nello stesso contesto?
Casomai si dovrebbero applicare le norme legate alla protezione delle famiglie dei pentiti, che vengono sostenute e tutelate al di fuori, ovviamente, del contesto di appartenenza. Stiamo risparmiando i soldi per la tutela e il sostentamento economico di Giovanni Brusca, oggi libero dopo le stragi, il cui pentimento, soprattutto in materia di patrimonio e di verità, è stato molto relativo, potremmo cominciare a disporre di quelle risorse.
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