La nuova strategia USA: isolare la Cina con l’aiuto del Giappone
- Postato il 4 maggio 2025
- Di Panorama
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Sull’orizzonte di Cho Cho San si staglia finalmente il «fil di fumo». Il tenente di vascello Pinkerton dell’opera puccianina (al secolo, Donald Trump) si è accorto che se vuole domare il dragone cinese deve appoggiarsi al Giappone. Fa specie che non se ne sia avveduta l’Europa: ma si potrebbe dire comme d’habitude, imitando Emmanuel Macron, visto che la Germania non ha una gran simpatia per il Sol Levante suo primo temibile concorrente nell’export perché i tedeschi comprano molto dal Giappone (nel 2024 un aumento del 5,8 per cento) e i giapponesi molto meno dai tedeschi (aumento dell’1,8 per cento), ma soprattutto perché con nove milioni di vetture i nipponici sono i primi costruttori di auto al mondo e a veder bene a Berlino questo dà molto fastidio. È, come spesso succede a Bruxelles, un grave errore: il Paese dell’Estremo oriente è probabilmente la vera trincea contro la «cinesizzazione» del mondo. Se va in pezzi la globalizzazione e si procede per aree d’influenza, questo è il disegno che a Trump hanno suggerito gli economisti del Manhattan Institute, è necessario accerchiare Pechino nel «suo giardino».
Diminuire la forza del dollaro, aumentare i dazi per riequilibrare l’export richiede al contempo coltivare partner privilegiati in alcune aree. Di questo è avvertito Stephen Miran, il capoeconomista della squadra che sta dietro la Casa Bianca, il quale infatti insiste nel dire: i dazi saranno temporanei e non per tutti uguali. La ragione sta nel fatto che bisogna provocare il Big bang degli scambi globalizzati e poi ricostruire un ordine di rapporti sulla base di alleanze geostrategiche. Dunque l’Arabia insieme alla Russia per avere il club dell’energia e staccare Vladimir Putin dalla Cina lasciandola, se si può in riserva; l’Iran con i caucasici per risolvere il caos di Gaza e stabilizzare il Medio Oriente; infine, o anzi prima di tutto, Tokyo e in subordine Seoul per mettere a cuccia la superpotenza asiatica. Non a caso mentre la Casa Bianca annuncia possibili tariffe fino al 3 mila per cento sui pannelli solari prodotti da Cambogia, Thailandia, Malesia, che sono ormai i subfornitori di Pechino, si spertica in elogi per i nipponici.
È successo un paio di settimane fa. Ryosei Akazawa, primo consigliere per il commercio estero del premier nipponico Shigeru Ishiba, un politico che di economia ne capisce assai, ha guidato una delegazione per trattare sui dazi. E con grande sorpresa al tavolo tecnico si è presentato Trump in persona affermando: «È un grande onore potervi incontrare».
Washington ha inizialmente colpito il Giappone con un dazio del 24 per cento, ma è pronto a ritirarlo per una ragione strategica: Tokyo è la sentinella della Cina oltre a essere il quarto partner commerciale degli Usa. Negli ultimi tempi i rapporti si sono fatti ancora più distensivi. Sulla scacchiera orientale Ishiba ha giocato d’anticipo. Appena il presidente statunitense ha messo la mano alla fondina della pistola doganale ha subito convocato un vertice con Cina e Corea del Sud. Per rilanciare un’intesa commerciale travestita però da intesa diplomatica. Nell’incontro a tre si è parlato di Ucraina con Tokyo che ha ribadito ai cinesi – e questo è un segnale su Taiwan – «che qualsiasi tentativo di cambiare unilateralmente lo status quo con la forza non sarà tollerato in nessuna parte del mondo» e ha confermato che «il mantenimento di pace e stabilità nella penisola coreana è una responsabilità condivisa dei tre Paesi».
Dunque Pechino, se non vuole avere ostilità commerciale dichiarata da parte dei due Stati asiatici, deve tenere a bada tanto Vladimir Putin quanto Kim Jong-un. Pare che Xi Jinping abbia avvertito un certo senso di accerchiamento…
Il Giappone si candida dunque a stabilizzatore di una delle aree calde del mondo, anzi dell’area di massimo interesse per l’amministrazione americana: l’Indo-Pacifico. E questo fa retrocedere in serie B l’Europa. Ciò spiega l’enfasi con cui lo scorso anno la Ue – non Berlino, ma trattandosi di Ursula von der Leyen le cose coincidono – ha annunciato che la Germania aveva scalzato dal terzo posto dell’economie del G7 proprio Tokyo.
In realtà si tratta di una fata morgana, un melodramma come la citata Madame Butterfly di Puccini. Un risultato peraltro effimero visto che tra due anni ci sarà il sorpasso di entrambi da parte dell’India e sarà ben più consistente. Un motivo in più per Trump per non avere troppo interesse per Bruxelles.
Lo ha capito Giorgia Meloni, che guardare a Oriente è prima di tutto rivolgersi al blocco Tokyo-Seoul. Il nostro presidente del Consiglio, rientrata dalla missione a Washington, ha subito detto: ora si punta a Est. Ma là per l’Unione esiste solo Pechino, vittima com’è di una narrazione stantia sul Giappone considerato in stagnazione e invece in una nuova fase di espansione economica.
La verità è che le statistiche si fanno in dollari e mentre l’euro è rimasto stabile, lo yen si è deprezzato; dunque, traducendo il Pil giapponese in «verdoni» risulta inferiore, ma quello tedesco è gonfiato dall’inflazione (circa 4.500 miliardi di dollari) mentre quello nipponico è frenato dalla deflazione (4.300 miliardi di dollari). Tant’è vero che le esportazioni del Paese asiatico vanno come uno dei loro celebri treni; puntuali e superveloci. Lo scorso anno da quattro anni – la fonte è il Nikkei, principale indice borsistico di Tokyo – gli Stati Uniti sono tornati a essere la prima destinazione dell’export nipponico e a dicembre, per la prima volta in 20 anni, il Nord America è diventato anche il primo mercato dell’export coreano. Chi perde terreno è la Cina che si agita molto, manda indietro i Boeing comprati in America e intensifica le provocazioni militari nel mar Cinese.
Ma i giapponesi continuano a pigiare sull’acceleratore dell’export: nei primi tre mesi di quest’anno è cresciuto del 3,9 per cento. E le previsioni di aumento del Pil – pur riviste al leggero ribasso causa consumi interni deboli – restano sopra il 2,2 per cento (la Bce stima per l’Eurozona un modestissimo 0,9 per cento di crescita), con la Banca centrale del Sol Levante guidata da Kauzo Ueda che ha alzato i tassi portandoli in terreno positivo (allo 0,5 per cento), perché gli investimenti netti sono assai sostenuti (siamo oltre lo 0,6 per cento del Pil). È il segno che Tokyo sta rivitalizzando la propria economia. Per consolidare la sua premiership Shigeru Ishiba ha bisogno di risultati considerevoli ed eccolo agire su tre piani. Il primo è un accordo a ogni costo con Trump, al punto che ha già limato le procedure d’ispezione delle auto statunitensi importate e dato istruzione per eliminare quanto più possibile le misure protettive sull’agroalimentare. In tale quadro rientra anche la ripresa del dialogo per l’acciaieria Us Steel. La Nippon Steel aveva offerto 15 miliardi di dollari, ma Joe Biden – dunque non il sovranista Trump – aveva posto il veto per «interesse nazionale». Ora la trattiva è ripresa e si arriverà a un investimento comune nippo-americano. Il secondo piano è quello degli armamenti. Il Giappone ha varato un piano di riarmo che aumenta le spese militari da 194 miliardi a 303 miliardi di euro cambiando anche il profilo delle sue forze armate: da semplice autodifesa a vero complesso militare. Il terzo profilo è la costruzione di una sua «Nato» nel senso che ha rafforzato la cooperazione militare con Australia, Nuova Zelanda e Corea del Sud e come referente di questa «alleanza» ha aperto una sua delegazione diplomatica presso la Nato. Lo stesso premier Ishiba ha auspicato in Asia un quadro di sicurezza simile al Patto atlantico.
La ragione è che la Cina ha intensificato la sua attività nel Mar del Giappone e appunto nel Mar cinese e con cadenza trimestrale fa esercitazioni aeronavali massicce davanti alle coste nipponiche.
Questo per Tokyo (che è molto preoccupata di una eventuale caduta di Taiwan: ha varato 65 miliardi d’investimenti per i microchip indispensabili all’industria automobilistica ed elettronica) significa vivere in perenne tensione. Per mostrare i muscoli alla Cina, il Giappone ha schierato le sue navi nell’esercitazione «Pacific Seller» con la marina Usa e quella francese, tanto per rimarcare l’unità europea! Chiarissimo il messaggio di Michael Wosje, contrammiraglio Usa: «Le operazioni coordinate rafforzano le nostre alleanze e scoraggiano i nostri avversari. Cerchiamo di mantenere un Indo-Pacifico aperto e inclusivo, libero da ogni forma di coercizione». Pechino è avvertita e Bruxelles pure.