La moda ai tempi del fascismo

  • Postato il 2 agosto 2025
  • Di Panorama
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È con grande piacere che colgo l’invito di Panorama a scrivere della genesi del mio libro La moda nell’Italia fascista. Non solo nero (Dario Cimorelli Editore): il risultato di una ricerca pluriennale che riprende l’ultima edizione inglese del volume Fashion under Fascism. Beyond the Black Shirt (Bloomsbury) e l’arricchisce con l’aggiunta di un apparato iconografico e di alcuni testi inediti.

All’origine del mio lavoro c’è una ricerca che condussi alla fine degli anni Novanta sui giornali del periodo fascista. Consultandoli scoprii  un articolo pubblicato sulla rivista La Donna, che nel 1935 titolava: «La moda è una cosa seria». L’autrice Gianna Manzini sosteneva che si dovesse considerare il fashion come parte integrante della cultura di un popolo e, soprattutto, che si dovesse trattarla con grande serietà e rigore proprio come si fa con la pittura, la letteratura, il cinema.

Non potevo essere più d’accordo. La sua teoria sosteneva a pieno non solo la mia ricerca, ma anche il progetto di promuovere la moda come nuovo campo di studio da integrare nei piani accademici già consolidati nelle università, in particolare la mia istituzione: il Graduate Center della City University di New York.

Pur lavorando all’estero – vivo a New York dagli anni Ottanta – ho approfondito la storia d’Italia e indagato proprio i periodi meno studiati, come appunto il fascismo, per collegarli ai concetti di “made in Italy” e “italian style”. Molte erano le omissioni sull’epoca tra le due guerre, soprattutto nell’ambito dello studio del ruolo della moda e delle donne coinvolte a livello lavorativo. Ho cominciato così a identificare quei periodi storici particolarmente cruciali per esaminare nel profondo il rapporto tra stile, storia e costruzione dell’identità nazionale, e l’impatto della moda nei molteplici processi di modernizzazione. E uno degli elementi emersi da quest’ultimo studio è il concetto di “modernità multiple”. Da una parte la moda si definisce e configura come industria manufatturiera che si dirama in una complessa filiera, dall’altra essa è una potente macchina simbolica in cui si incrociano desideri, stili, sogni e anche ansie.

Un altro punto che mi preme sottolineare riguarda il restituire dignità storica alla moda italiana. La sua genesi è sempre stata attribuita dalla maggior parte delle pubblicazioni al 1951, con le sfilate fiorentine organizzate da Giovanbattista Giorgini. Ma, in realtà, già agli inizi del Novecento e poi durante il periodo del regime fascista si parlava della nascita dell’Ente nazionale della moda (1932 e 1935), la prima istituzione governativa per controllare la filiera della moda e del tessile. Cioè si auspicava un processo di industrializzazione del tessile abbigliamento all’interno di una politica di ruralizzazione del Paese. Una contraddizione molto significativa, a pensarci bene. E non l’unica, come vedremo.

Non va neppure trascurato il fatto che donne come la socialista Rosa Genoni, la quale aveva sognato una moda italiana sin dagli inizi del Novecento (e a cui ho dedicato la prima monografia bilingue nel 2015) e come la fascista Lydia De Liguoro, direttrice del mensile italiano di costume e moda Lidel (1919-1935). Loro già in quegli anni si battevano per una moda made in Italy. Che significava anche promuovere forme di partecipazione e di emancipazione femminile, mentre dall’alto si imponenvano modelli tradizionali alla famiglia e alle donne.

Dunque, più che l’origine della moda, mi interessa rintracciare sia i punti di congiuntura sia i punti che ci segnalano nuovi percorsi storiografici per individuare le innovazioni, le sperimentazioni, le aperture di pensiero avvenute nell’industria manifatturiera tessile, nella cultura e di conseguenza nella società civile. 

Quello che emerge è che, forse, nessun tema più della moda è in grado di dimostrare le contraddizioni del periodo fascista: le tante realizzazioni del Ventennio si sono concretizzate su binari di opposta direzione e velocità. Basti pensare, per esempio, all’anti americanismo e anti cosmopolitismo del regime, mentre i modelli ai quali aspiravano sia i ceti medi, sia quelli popolari, venivano da Oltreoceano e dai Paesi europei più moderni. Cosa dire dell’autarchia e del populismo che imponevano riduzioni di consumi e uniformità di comportamenti e bisogni, contro le esigenze di  diversificazione degli stili di vita a cui i vari strati della borghesia di regime in ascesa aspiravano.

A questo proposito sono una fonte preziosa i filmati dell’Istituto Luce, che non documentavano soltanto le sfilate di moda italiana, ma avevano reportage dagli Stati Uniti (moltissimi), dalla Francia, persino dalla Cina e dal Messico. I film animavano le foto dei capi sartoriali presenti nelle riviste di moda e li raccontavano per un pubblico più ampio che si recava nelle sale cinematografiche.

Non dimentichiamo, inoltre, che negli anni Trenta nascevano Cinecittà e la scuola di cinematografia: per la prima volta si professionalizzava il ruolo del costumista cinematografico. Il rapporto moda e cinema si sincronizza proprio in questo periodo, sia nelle sfilate riprese dall’Istituto Luce, sia nella produzione cinematografica (come Contessa di Parma di Alessandro Blasetti; Grandi magazzini di Mario Camerini, oltre a tanti altri). Guardando le opere del tempo si comprende come le case di moda producessero capi di eleganza e buon gusto non meno attraenti di quelli pensati a Parigi. Le sfilate anni Trenta, documentate dal Luce, mostrano anche la sperimentazione insita al processo di filmare la moda e il rapporto tra moda, città, paesaggio e beni culturali italiani, in anticipo sulle attuali sfilate nei siti storici fatte dai brand, come ad esempio Dolce & Gabbana.

Lavorare all’estero occupandomi dell’Italia ha significato abitare due mondi anche nel campo della ricerca archivistica. Alla New York Public Library ho esaminato materiali relativi al padiglione italiano dell’Esposizione universale della Grande mela  del 1939, e ho scoperto un documento inedito scritto da Eleanor Lambert, definita “madrina” della moda americana, della fashion week newyorkese e della festa annuale al Met, il Metropolitan Museum of Art, che si tiene ancora oggi. Ebbene, oltre ai parallelismi tra moda italiana e americana negli anni Trenta, e al rapporto di subordinazione con quella parigina, emergono testimonianze di indipendenza di un proprio progetto industriale, commerciale e culturale che potesse investire la politica, le istituzioni, la stampa. Non un’operazione propagandistica del regime, quanto una volontà diffusa delle persone impiegate e impegnate nell’industria del tessile di contribuire al meglio per rappresentare l’Italia.

Ancora una volta, quindi, c’erano forze contraddittorie: da una parte il bisogno di promuovere un’industria manifatturiera del Paese e con esso quello di tramandare un’identità estetico-culturale; dall’altra la lotta alla vanità e alle smanie borghesi.

La massaia di un ambiente rurale e la donna sportiva e atletica, le uniformi civili e la prima istituzione dell’Ente Moda per promuovere proprio quell’eleganza borghese che confliggeva con l’idea di camicia nera. Ma vestirsi è un’attività quotidiana che serve a coprire il corpo, a proteggerlo ma anche a decorarlo. Il vestito comunica il nostro essere al mondo in uno spazio temporale e culturale.

È per questo che nel libro, alle foto di alta moda delle riviste patinate, con splendidi tailleur e vestiti da sera, cappelli dalle misteriose velette e fiori di stoffa, sono state affiancate le immagini degli archivi di Michele Cioci (1915-1972) di Canosa di Puglia e quelli di Giulio Parisio e dei Fratelli Troncone di Napoli.

Fotografie che hanno contribuito a raccontare la complessità del periodo in oggetto, non si leggono come materiale subordinato al testo scritto,  ma come racconto in parallelo in cui si documentano tante soggettività di diverse classi.

La fotografia racconta la storia e i fotografi si fanno artefici della documentazione del loro territorio. Per esempio, in una delle fotografie di Michele Cioci è possibile confrontare come si manipolava la divisa fascista facendola in casa e riadattandola al corpo di un bimbo. Le uniformi civili costavano e non tutti potevano permettersele.

Nel volume ho tenuto a evidenziare come sia cruciale studiare questi scatti nei dettagli estetici, soffermarsi sui meccanismi di autorappresentazione e rappresentazione, sulla scelta degli abiti, sulle pose, sulle acconciature. C’è di tutto in queste immagini: le modelle ritratte nelle case di moda (Cassisi, De Finizio, Vinti) ma anche per le strade di Napoli (Parisio e Troncone), la grande influenza del cinema nelle pose, la tradizione del ritratto di famiglia. 

Le immagini sono di per sé documenti importanti, ma anche opportunità per approfondire una storia sociale e culturale della moda e del costume di un’epoca. Le fotografie di Cioci, Parisio e Troncone ci raccontano come l’abito sia una componente integrante della nostra umanità entrando nelle pieghe della storia.

La moda ai tempi del fascismo
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Autore
Panorama

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